mercoledì 13 marzo 2013

Papocchi linguistici


Da quando Ratzinger ha lasciato il soglio di San Pietro, mi chiedo se affiancheremo al comune ad ogni morte di papa, anche un più innovativo ad ogni abdicazione di papa. Questa variante i conterranei di Benedetto XVI non possono giocarsela, visto che per loro ciò che avviene di rado è alle Jubeljahre“ (“ad ogni Giubileo“) e, almeno per ora, non si ha notizia di una licenza concessa a questa ricorrenza.

Certo che, detto “papale papale” (tocca tradurre “klipp und klar“), Benedetto XVI alla Chiesa ha lasciato una bella patata bollente. E se non si avvera il detto che “da papa si torna vescovo“ (o, nella versione in tempi di crisi economica, “parroco“), non si tratta nemmeno di essere “päpstlicher als der Papst (“più papa del papa stesso”), ovvero di intestardirsi su minuzie inutili. È proprio qualcosa di sostanziale, perché un papa muore (o lascia), ma la “papitudine“ resta, così ci si è arrabattati con un inedito “papa emerito“, che non è proprio un ex.

Toccherà così al conclave nominare il prossimo erede di San Pietro, e già impazza il toto-papabili. Che, almeno in italiano, è una parola che denota chiunque sia “in der engeren Wahl“, potenzialmente da scegliere, anche per sogli meno rinomati. Tra le scommesse più in voga, la nazionalità del neo-eletto, con in sottofondo il neo-tormentone “Papa nero”. Vallo a dire ai tedeschi che, in italiano, un “papa straniero“ potrebbe anche non essere Sua Santità, ma soltanto un capo estraneo alla situazione, un podestà.

Certo in tempi di accuse di ingerenze esterne al governo italico, il tema è un campo minato, e ci si limiterà a notare che, in una lingua più luterana, il papa si è preso meno spazio anche nei modi di dire. Ma è sempre bene stare accorti, perché a Berlino di vendette papali ne sanno qualcosa: die Rache des Papstes è l’enorme croce che i raggi diretti del sole (quando c’è) creano sulla cupola della Torre della Televisione, emblema comunista per eccellenza. Basterà ricordare ai germanofoni che, visitando la nostra capitale, sarebbe davvero un peccato (a proposito di santità) “andare a Roma e non vedere il papa“, con buona pace del mancato contraltare (e si resta in curia) perché non mi risulta un “andare a Wittenberg e non veder Lutero.
I fasti barocchi del Vaticano, così tanto criticati dai sobri Riformati, tornano nella curiosa espressione da boxt der Papst im Unterhemd” (“lì il papa boxa in canottiera”) che, a detta della mia unica fonte, indica una festa davvero “geil”, dove val la pena di andare perché c’è da divertirsi. Anche in versione boxeur, comunque, il Sommo Pontefice (come il suo rivale storico) vestirebbe Prada.

E la nota marca può mettersi il cuore in pace, perché morto un papa, se ne fa un altro (e il dizionario suggerisce un mesto “niemand ist unersetzlich”). E c’è da scommetterci, chiunque sia il nuovo capo della Chiesa, continuerà a “stare da papa”. Chi vive fra agi e senza grattacapi economici, in tedesco “lebt wie Gott in Frankreich” (“vive come Dio in Francia”). L’etimologia è incerta, ma pare si debba alla Rivoluzione Francese, che in nome della Ragione lasciò Dio sfaccendato.
E, se perfino l’unico superiore del Papa, in tempi pre-crisi, è rimasto senza lavoro, si potrà forse concedere che anche Ratzinger si ritiri dall’incarico. Con una postilla, sempre di tono lavorativo, di conio polacco, a metà fra rivalsa e amarezza, perché la differenza tra un tedesco e un polacco? un tedesco lavora fino alla pensione, un polacco fino alla morte.

sabato 9 marzo 2013

“Crucchi” contro “Itaka”, storia di un duello verbale senza confini

un articolo da Il Mitte

Per mia nonna, classe 1911, tutto ciò che era “cruco” aveva un quid di oscuro e maligno. Del resto, era sopravvissuta a due guerre mondiali, anche se non se ne rendeva ben conto, perché per lei erano solo e soltanto “la guera”, e i “cruchi” i cattivi. A merenda, una volta, cercai di mostrarle che il Sole se ne sta fermo e noi giriamo, così come la maestra ci aveva convinti, ma mi zittì ammonendomi di non parlare “tudesc”, che per lei queste spiegazioni tortuose erano incomprensibili.

In “tudesc” erano anche le carte che riceveva puntualmente ogni mese, cinquanta euro di pensione di reversibilità per gli anni che il nonno (per me solo una foto sbiadita alle pareti) aveva passato in qualche fabbrica per poter tirar su sette figli, perché in provincia di Bergamo allora a parte qualche filanda e fonderia non c’era poi molto.

Insomma, niente da fare: ogni volta che captava una lingua che non fosse bergamasco o italiano, mia nonna la bollava come “cruco”, lei che in viaggio di nozze era stata a Monza (anzi, “Monsa”) col tramvai. Inutile che la badante polacca le ricordasse che lei di tedesco non aveva proprio nulla, anzi che i “Niemcy” (i “muti”, come li designano gli slavi) le stavano proprio poco simpatici, per lei era un “hic sunt leones”, la constatazione di un’alterità talvolta invalicabile, quasi un sinonimo di “terú”.
Pare che “crucco” sia un’italianizzazione del croato kruh, ovvero pane. Gratta, gratta, sotto gli epiteti spesso si trova una guerra, e nella Prima Mondiale i nemici erano gli “austriaci”, per estensione “tedeschi”. A ben guardare, però, nelle fila “austriache” militavano quelli che oggi sono ungheresi, sloveni, cechi, polacchi (nel plurinazionale impero ognuno rivendicava la paternità della Wiener Schnitzel, o cotoletta milanese, o Zagrebalska).

E capitava che sul fronte italiano a combattere fossero i croati, già in passato prodi militari al servizio dell’imperatore. La vulgata dice che, fatti prigionieri, reclamassero “pane”, e da allora, chi è tedesco è crucco. È comodo per chi viene dalle mie parti perché fa rima con “gnucco”, cioè testardo e poco flessibile. Simpatico constatare che i croati si riferiscono ai tedeschi conSwabski, in realtà i soli svevi, che da sempre praticano incursioni più pacifiche lunghe le loro coste a colpi di case-vacanza.
Stando in tema bellico, si trova ancora qualche tedesco che si lamenta dei treulose Tomaten, i pomodori sleali, ovvero gli alleati italiani che nella seconda guerra mondiale cambiarono fronte. Prima erano gli Itaker o Itaka (italienische Kamaraden), termine che torna utile specie in tempi di guerre calcistiche, quando basta un pallone per risvegliare i rancori sopiti nel tempo. Più comune è Spaghettifresser, a cui noi non rispondiamo con “Mangiawurstel”, forse perché ci han giá pensato gli inglesi coniando Kraut, o forse perché degli spaghetti, in fondo, ci facciam vanto, e culinariamente ci insidiano più da vicino i rinomati “mangiarane”. Con loro ci disputiamo anche la palma di ambasciatori di moda, insomma a “voltagabbana” a “Dolce & Gabbana”.

Spulciando la rete, pare che un altro termine per italiani sia Welsche, passe-partout con cui i germani designavano i popoli di lingua romanza e che farebbe il paio con il “Wlochy”, termine ufficiale per “italiani” in polacco (e quasi omofono di Wlochaty, pelosi, ma forse è solo un caso). I tedeschi di giù, gli svizzeri, fra i pascoli alpini giocavano a morra e cosí preferiscono riferirsi a noi come i tschingg, che strano a dirsi, ma suona “cing”, come le forme dialettali per “cinque”.

Del resto, ci sarebbe da chiedersi perché “tedesco” e non “germano”, e andando a ritroso l’etimologia riconduce a “theudo”, “popolo”, contrapposto alle élites che blateravano in un incomprensibile latino. Parola che ben presto si confuse con teutone, che originariamente indicava solo danesi e altre genti molto settentrionali, ma guerrieri talmente abili, da generare furor teutonicus negli scrittori romani.
Nemmeno sull’origine della nostra “Italia” c’è unanimità, e viene solo da pensare che, in fondo, aveva ragione mia nonna, è tutto una tudescata e a furia di voler cercare le radici delle parole, ci si perde in una foresta talmente fitta, che si può solo provare a convincerci che siam tutti figli di Adamo. Beandoci della diaspora babeliana, e magari tacendo a mia nonna buonanima, che forse Bergamo deriva da Berg Heim.

Da “Schadenfreude” a “Zeitgeist”: le parole tedesche intraducibili in italiano

un articolo da Il Mitte

Tutto cominciò quando, sotto la canicola, in coda per raggiungere il mare, mio papà si fermava per una tappa ristoratrice. Sui tovagliolini dell’autogrill “buon appetito” era inevitabilmente tradotto in varie lingue, fra cui il confortante “guten Appetit”. Semplice, tanto da non richiedere alcuna contorsione linguistica per tenerlo a mente. Poi, arrivata in Germania, ho dovuto congedarmi dall’espressione che mi ricordava le vacanze dell’infanzia e rassegnarmi a Mahlzeit. Tecnicamente significa “tempo del pasto”, in realtà si usa per augurarsi il buon appetito. Per tutta risposta, si ripete “Mahlzeit” e ognuno può avventarsi sulla propria razione.

Del resto, tutto quanto ha a che fare con la scansione del tempo sembra essere corredo dello stereotipo teutone, un po’ la Weltanschauung di questo popolo. Fra i banchi del liceo ci siamo imbattuti più o meno tutti in questo vocabolo dall’affascinante doppia U, e un docente più o meno convincente ci ha sempre scomposto la parola letteralmente in “visione del mondo”. Il concetto è filosofico, indica una concezione collettiva, non propria di un solo individuo. Per voler ripescare un’altra espressione che durante le interrogazioni è un passepartout di un certo pregio, è la “forma mentis” di una nazione, di un partito.

Del resto nelle ore di filosofia, siamo inciampati a turno anche nello Zeitgeist, che io, naïve, associavo al più vivace e simpatico Poltergeist. Si tratta, invece, dello “spirito del tempo”, non un peculiare essere immaginario, ma la tendenza culturale di un epoca, quasi ad indicare l’essenza di un periodo storico.
Quando invece si parla di una tendenza ricorrente in un contesto più pragmatico, che sia un discorso o un’opera, allora è bene lasciare le latitudini iperuranee e far ricorso ad un altro termine tedesco, il Leitmotiv, nato in contesto musicale come “motivo trainante”.

Ad esempio, farsi una birretta serale è un leitmotiv del Feierabend. A dispetto della combinazione (sera feriale), non si tratta di una sera di un giorno di vacanza, bensì è il riposo quotidiano dopo le ore lavorativo. Insomma, augurare un  buon Feierabend equivale ad augurare uno stacco netto dai crucci professionali, e non è male (seppur poco realistico) pensare che ogni sera equivalga un po’ ad una festa.
Se Berlino offre innumerevoli opportunità per rendere ogni sera un po’ speciale, anche la Zweisamkeit è un’opzione da contemplare. Tentando il neologismo di “dueitudine”, è la perfetta armonia a due, di norma di coppia, l’ideale che i genitori tedeschi tornano ad inseguire una volta che i rampolli sono tutti fuori casa (e questo, statisticamente, dà loro dai 10 ai 15 anni in più per il tentativo rispetto agli omologhi italici).

Per chi non avesse a disposizione un partner, niente Torschlusspanik: è il panico dell’ultimo momento, di quando “la porta si chiude”: a Berlino svariati party per gli Ü30 (über 30), blind date, case delle coccole aprono i loro battenti per fugare questa paura. Pare indicasse in origine l’ansia di chi, nel Medioevo, restava chiuso fuori dalla città fortificata, in preda di banditi, oscurità e bestie feroci. Anche qui a Berlino, questo concetto, in fondo, astratto, ha un risvolto molto concreto: in ossequio al rispetto per la puntualità, spesso le porte di bus e tram si chiudono senza scrupolo sui passeggeri dell’ultimo minuto.

Saltare a bordo della metro è un’azione sempre scandita da un perentorio “Einsteigen, bitte”. E a salire a bordo è anche un Quereinsteiger, che anzi proprio si mette di traverso (Quer= di traverso, Einsteiger= salire): è chi si inventa un lavoro, un newcomer professionalmente parlando, che lascia tutto per un nuovo ambiente, o che ne è obbligato dalle infauste circostanze.

Per chi proprio non sapesse come sbarcare il lunario, in corner si può tentare raccattando bottiglie vuote un po’ dove capita: la concorrenza è spietata, ma la caccia al Pfand qualche spicciolo lo può sempre portare. E basta fare un paio di volte la spesa in Germania per familiarizzare con il deposito che si paga su bottiglie di plastica e vetro, incentivo al riciclo e, tutto sommato, anche all’autostima: buttando un vuoto per strada, non ci si sente più colpevoli, ma anzi quasi magnanimi rinunciando a qualche centesimo per lasciarlo a chi ne ha bisogno.

Magari, per i più sadici, gettare uno sguardo a chi sta peggio di noi può perfino suscitare una certa, compiaciuta gioia. E benchè siano i tedeschi ad ammettere che “Schadenfreude ist die schönste Freude, denn sie kommt von Herzen” (la Scahdenfreude è la gioia più bella, perché viene dal cuore), un’occhiata al web disvela che tante sono le lingue che hanno una traduzione specifica di questo infausto concetto. Non la nostra, anche se, pensandoci bene, un ghigno quasi mefistofelico mi distorce il volto, quando mi beo perchè fra le parole che esportiamo noi senza possibilità di traduzione c’è “pizza”.

Le cinque (impossibili) parole tedesche che non impareremo mai

un articolo da Il Mitte



Il tedesco, si sa, spaventa per la lunghezza delle sue parole, che possono unirsi in mostruosi composti che atterriscono qualunque straniero.
Oltre alla distesa di lettere, c’è da dire che la parola principale del composto viene sempre per ultima, giusto per non poter distogliere l’attenzione fino alla fine dello sforzo fonetico e dover ricostruire il significato a ritroso. A parziale conforto di chi si cimenta col tedesco, di solito anche i lemmi più ostici sono scomponibili a logica, assioma del culto teutone per la descrizione precisa ed analitica.
Online il dibattito su quali siano le parole più lunghe in assoluto della lingua tedesca è acceso, e le possibilità di combinazione sono parecchie, potenzialmente infinite, per cui la discordia regna sovrana. Abbiamo deciso di sfogliare (seppure online) un dizionario (questo) e ci siamo fidati della sua classifica: ai lettori l’ardito cimentarsi nella ricerca di alternative. Poi, armati di pazienza ed in mancanza di una traduzione diretta, ci siamo messi a scomporre a ritroso quelli che ci sono sembrati monumenti alla cacofonia.
Rullino i tamburi e si facciano coraggio le corde vocali, partiamo dalla quinta classificata, con 43 lettere: 
5) Elektrizitätswirtschaftsorganisationsgesetz.
Qui si va nel burocratese, abbiamo infatti a che fare con la legge per l’organizzazione dell’industria elettrica. C’è da sperare che non sia materia di dibattito, perché vederla su uno striscione in manifestazione sembra arduo.
Aumentando di 1 la difficoltà e raggiungendo quota 44 si va a bussare alla porta della microbiologia con
4) Gleichgewichtsdichtegradientenzentrifugation
Se il  nostro tentativo di puzzle lessicale è corretto, dovrebbe essere l’equilibrio di sedimentazione della centrifugazione differenziale, un metodo utilizzato per l’osservazione cellulare. A chi s’intende del settore diritto di replica e pubblica gogna.
Un respiro di sollievo (se non fosse per le 46 lettere) per la meno specifica
3) Verkehrsinfrastrukturfinanzierungsgesellschaft,
compagnia per il finanziamento delle infrastrutture dei trasporti, amichevolmente VIFG.
Le prime due della classifica  hanno davvero tutt’altro passo, con la seconda si torna in ambito legislativo e si raggiunge la stratosferica quota 63:
2) Rindfleischetikettierungsüberwachungsaufgabenübertragungsgesetz
Questo termine indica la legge sul trasferimento degli obblighi per il controllo dell’etichettatura della carne bovina. Varata nel 2003, intimorisce anche la sua abbreviazione: RkReÜAÜG, e non è il muggito di una mucca pazza.
In vetta c’é l’inarrivabile 67 di un altro complicatissimo termine giuridico:
1) Grundstücksverkehrsgenehmigungszuständigkeitsübertragungsverordnung,
che per scomporre richiede a chi scrive ben più di uno scongiuro. La direttiva per l’assegnazione delle licenze di competenza per i beni immobiliari è incoronata lemma più xeno-deterrente del dizionario tedesco.
Una menzione d’onore va indubbiamente tributata a Donaudampfschiffahrtsgesellschaftskapitän, ovvero il capitano della compagnia di navi a vapore del Danubio. Partendo da questa parola, con un pizzico di fantasia, si può dare vita ad una serie di composti: la vedova del capitano, piuttosto che la pipa o il cappello.
La parola più lunga mai registrata in tedesco, stando al Guinness dei record, è
Donaudampfschiffahrtselektrizitätenhauptbetriebswerkbauunterbeamtengesellschaft
Il mostro (ormai desueto) consta di 79 lettere per designare l’associazione degli ufficiali subalterni della direzione dei servizi elettrici della compagnia a vapore del Danubio.
La prossima volta che sognerete del bel Danubio blu, pensate anche alla poesia dell’idioma germanico.
E voi, in quali parole impossibili vi siete imbattuti nella vita quotidiana?

sabato 2 marzo 2013

Regole

Internazionale ha stilato un ironico regolamento per chi vuol far la valigia

E dall´aroma di sudore misto ketchup della Biblioteca Statale di Berlino, come la vedo io:

1 Lamentati: l´amarezza di dire che l’Italia è un Paese di merda ti tocca anche se te ne vai. E ti spetta.

2 Ricorda che i Paesi con il sistema politico migliore sono quelli con il clima e la cucina peggiore.
3 Pensaci bene: vuoi davvero diventare l’ennesimo sud europeo a Londra, Berlino, Sao Paulo, Sidney?

4 Se sei indeciso su dove rifugiarti chiedi consiglio ad Assange.

5 Resta nei paraggi, per le prossime elezioni l´Amabasciata continuerá a non facilitarti il voto dall´estero.

Che l´emigrazione non sia la panacea, lo hanno imparato giá i tris-trisavoli. Ma non é che in patria si lascino coorti di Madre Teresa che restano per il Bene della Patria.
Calcoli, personalissimi e opinabilissimi calcoli, che spesso finiscono per essere anche renali, di qua e di lá dal confine. 

Amen