giovedì 28 febbraio 2013

Poesia



TRAURIGKEIT

Die mir noch gestern glühten,
Sind heut dem Tod geweiht,
Blüten fallen um Blüten
Vom Baum der Traurigkeit.

Ich seh sie fallen, fallen
Wie Schnee auf meinen Pfad,
Die Schritte nicht mehr hallen,
Das lange Schweigen naht.

Der Himmel hat nicht Sterne,
Das Herz nicht Liebe mehr,
Es schweigt die graue Ferne,
Die Welt ward alt und leer.

Wer kann sein Herz behüten
In dieser bösen Zeit?
Es fallen Blüten um Blüten
Vom Baum der Traurigkeit.

TRISTEZZA
 
Quelli che ancor ieri ardevano
Sono oggi votati alla morte
Cadono fiori su fiori
Dall'albero della tristezza

Li vedo cadere, cadere
Come neve sul mio sentiero
I passi non risuonano più
Il lungo silenzio si avvicina

Il cielo non ha stelle
Il cuore non ha più amore
Tace la grigia lontananza
Il mondo divenne vecchio e vuoto

Chi può proteggere il suo cuore
In questo tempo crudele?
Cadono fiori su fiori
Dall'albero della tristezza

 Hermann Hesse, 1944

martedì 19 febbraio 2013

Azzurro


L´azzurro è il colore del cielo. L´insegnante di scienze a suo tempo ha provato a spiegarmi che c´entrava qualcosa la rifrazione delle onde elettromagnetiche, ma in questi giorni non posso più crederle. Da quando sono in Germania, il cielo per me è grigio o bianco, passando per tutte le possibili sfumature del lattiginoso, plumbeo, ghisa, smorto, evanescente.  Del resto, in tedesco tendono ad usare sempre e comunque “blau”, anche quando noi useremmo “azzurro”, quella parola dal suono così orientale, esotico, che evoca solo a pronunciarla qualcosa che qui porterà forse solo l´apocalisse climatica cui l´umanità lavora alacremente. 

 
Sarà per questo che quando qualcuno promette la luna, in tedesco promette “il blu del cielo” (“das Blaue vom Himmel herunter versprechen”): sarei pronta a far carte false per ipotecarmi uno sprazzo d´azzurro giornaliero, ma che dico, anche solo settimanale. Oggi durante l´ennesima sortita in bici casa-lavoro, dalle lenti appannate dei miei occhiali non distinguevo la linea fra Terra e cielo, tutto un confuso bianco sporco che ho smesso da tempo di considerare poetico. 

Non che la Bassa Bergamasca sia una bucolica tavolozza di lapislazzulo e smeraldo: il grigio dei capannoni piuttosto che dei fumi di varia natura si accanisce contro l´azzurro, ma quello strenuo, resiste, e alle volte grazia la vista con un limpido squarcio che arriva fino alle Prealpi.
Qui è più bucolico che lì: basta uscire da quasi qualunque città (fatto salva, forse, la zona della Ruhr) per imbattersi in boschi e campagna. Verrebbe voglia di “fare blu”, ovvero bigiare il lavoro o gli impegni (“blau machen”). Così i probi tedeschi, il cui riposo dopo il lavoro è sacro (Feierabend), ogni tanto si concedono un “lunedì blu” (“Blauer Montag”), dimentichi di scadenze e to do list. Certo in questo letargo dei sensi che mi provoca l´inverno, la voglia di scampagnate è ridotta ai minimi termini, e mi sono comprata al mercato turco una bella coperta azzurro sfavillante. 

Del resto, si sa, da una coperta turchese si sa mai che una fata turchina non esaudisca i miei desideri e colori un po´questo cielo bigio: credo sia un desiderio più a buon mercato che non quello di un aitante principe azzurro sul suo bianco destriero. Sarà un caso che qui è un “principe delle favole” (Märchenprinz), cautamente (almeno nella lingua) acromatico?

Percepisco la stessa prudenza quando i tedeschi sono particolarmente euforici, perché non bazzicano il settimo cielo, bensì si limitano a fluttuare sopra le nuvole (“über allen Wolken schweben”), senza avvicinarsi troppo a quelle alte sfere dove risiede, guarda un po’´, il Padre Celeste (tinta che qui, semplicemente, meccanicamente è “himmelblau”).

Insomma l´azzurro è merce rara da queste parti, per cui nessuna sorpresa se la meraviglia si tinge di blu: “sein blaues Wunder erleben”. Più azzurri sono, mi pare, giusto gli occhi degli abitanti, sia come frequenza, sia come intensità, che rimangono tuttavia semplicemente “blau”. Sará per questo che quando la filano liscia, i tedeschi se ne “escono con gli occhi azzurri” (“mit einem blauen Auge davonkommen”)?

Cosa che, calcisticamente, non gli riesce molto proprio contro gli “azzurri”: di noi, lo ammettano seppur a malincuore, hanno una fifa blu. 

Magra consolazione, ma me la faccio bastare mentre scruto verso l´alto in cerca di quelle particelle rifratte in cui non ho piú fede.

mercoledì 13 febbraio 2013

come non dito


Lasciare Berlino è sempre un trauma. Se si finisce in una cittadina sassone, ex capitale chimica della DDR, ancora di più. Per fortuna c’è sempre la lingua tedesca che, con la sua pervicacia analitica, spezia un po’ le tetre giornate. Così spulciando fra la lista delle patologie per cui la mia assicurazione sanitaria prevede rimborso spese, mi imbatto nel monumentale “Nasennebenhöhlenentzündung”, che da solo basta a provocarmi slogatura della mascella. Elementare, Watson: l’infiammazione della zona vicina ai buchi del naso. Una sinusite, insomma. Ora, da vera donna di cultura, e da vera zia di veri nipoti, non posso che pensare al serpente Kaa del Libro della Giungla, quando si lamenta di dover serpentare con la sinusite. 

Per fortuna non ho una grande dimestichezza col vocabolario di malanni ed infortuni vari, ma dovesse mai capitarmi, il camice bianco di fronte a me penserà che sono una fine conoscitrice, quando mi metterò ad usare i termini di origine classica. Perché l’ernia del disco analiticamente si chiama “Bandscheibenvorfall”, ovvero un incidente al disco intervertebrale, e la psoriasi diventa un “eczema forforoso” (Schuppenflechte). 

Ad ogni modo, alla domanda “come va?”, preferirei sfoggiare una delle mie ultime acquisizioni germanofone, ovvero “alles paletti”. Significa “tutto ok”, e una sortita nelle piazze virtuali mi suggerisce due possibili, ma non comprovate, etimologie: l’una dal verbo ebraico per “conservare”, nel senso che “tutto è al sicuro”. L’altra dal nostrano “paletta”, ovvero “tutto liscio”.

Auguro al mio interlocutore di poter sempre rispondere con “dito”. E anche questo pare sia un prestito via italicus, seppur non ha niente a che vedere con parti anatomiche, e ancor meno con gestacci associati. L’ho trovato spesso curiosando nei commenti di FB, e sospettando una qualche abbreviazione da linguaggio informatico, sono invece incappata in un derivato di “detto”. “Dito”, sta, infatti, per “anche io”, “come dici tu”, e deriverebbe dal “detto” italiano, probabilmente diffusosi insieme ai nostri mercanti quando contrattavano i prezzi.

Un po’ come l’effetto Lombard (Lombard Effekt), che consiste nel diventare striduli cercando di alzare la voce,  ma che non è stato esportato da nessun co-regionario mio, bensì da un certo ornitologo francese. Un esempio di Verschlimmbesserung, ovvero di un’azione intrapresa per migliorare qualcosa, ma che finisce solo per ingarbugliarla ancora di più (Verschlimmerung + Verbesserung). 



Germanizzandomi?


“Ti va di guardare Tatort?” Prima o poi, come temevo, la domanda sarebbe arrivata. Puntuale ed implacabile, lo scotto (fra gli altri) da pagare quando la (dolce?) metà è crucca. Tatort (o “Scena del delitto”) per me era sempre rimasto una leggenda, un rito cui si sottopongono amici e colleghi ogni domenica. Un po’ come per me, quando rientro, la polenta d’inverno con Linea Verde o la pizza col tenente Colombo in versione estiva. Dal 1970 i germanofoni di Teteschia, Svizzera ed Austria, ogni domenica alle 20.15, possono seguire le avventure di svariati team polizieschi. I canali dei tre Paesi ci si sintonizzano ed ogni settimana propongono un episodio ora da Stoccarda, ora da Vienna, ora da Berlino, in una teutone ecumene televisiva che non conosce declino. 



Ho sempre pensato che fosse questione per altri, ed invece è toccato anche a me. Inutile nicchiare, mi ci sono sottoposta con antropologico puntiglio, ripromettendomi la solita osservazione partecipata con nobil distacco. Ed invece, ironia della sorte, l’episodio m’è pure piaciuto. Per mettere alla prova la mia pazienza, ho beccato una puntata ambientata a Lucerna, quindi con cast svizzerofono e per me difficile da capire del tutto. La coppia di attori centrali vedeva un commissario panciuto e asociale, infilato perennemente in uno smanicato omino michelin, e la poliziotta lesbica, che arrivava sulla scena del delitto mezza sbronza. Complici i bagordi del Rosenmontag, il lunedì grasso di Carnevale che in mezzo mondo germanofono è un vero e proprio trionfo di colori, quasi insospettabile a queste latitudini. La serie di delitti avveniva entro una gilda, il killer un ex membro che aveva inscenato un suicidio per poi vendicarsi dell’estromissione, dovuta alla tossicodipendenza del figlio. Regia essenziale, niente effetti speciali, nemmeno battute epiche. 

Insomma, ho avuto il mio battesimo di fuoco sulla via della germanizzazione. Ma strenua resisto, temendo l’irreversibilità del fenomeno. Oltre al periodico pellegrinaggio in patria, per sciacquare i panni al Serio e ritemprare le papille gustative,  ho ancora remore su alcune delle estrinsecazioni della Zweisamkeit (vita a due). Ad esempio, la Spielabend con incorporato Mitkochen. La Spielabend è un ritrovo a cadenza fissa (che ne so, una volta alla settimana), di solito fra coppie di coppie, che prima cucina insieme, poi magnano e giocano. Mi è capitato una volta, messa alle strette: prima una partita a Memory, poi a Scarabeo. A Memory, constata la mia Caporetto, ho cominciato a scoperchiare 4 carte insieme, ma subito la compagine crucca si è imbizzarrita, e a nulla è valso il mio tentativo di spiegare che, comunque, il gioco era già finito, non avevo più modo di rimontare. 

Nessuno ha voluto mit-barare, così abbiamo deciso di andarcene tutti a mit-dormire. 

giovedì 7 febbraio 2013

I gatti sceglierebbero Whiskas, e “Martin Lutero alloggerebbe qui”


I gatti sceglierebbero Whiskas, e “Martin Lutero alloggerebbe qui”, come pubblicizza il Best Western. Dalla città dove è conservata la maschera funeraria di quel Martino che tanti grattacapi causò all’Europa, ho passato 3 giorni in quella dove, tra un colpetto di chiodo e l’altro, tutto ebbe inizio. Wittenberg è una cittadina di 40.000 abitanti stile parco a tema intorno al buon Lutero, e ad onor del vero si chiama Lutherstadt Wittenberg. 


Poco poterono secoli di Controriforma: nemmeno ricordare che il  vero nome del cosiddetto riformatore era “zoccola” (Luder), o diffondere la vulgata secondo cui le 95 tesi furono concepite in un vespasiano (ancora visibile nelle fondamenta del monastero di Lutero): oggi questo paesotto senza grande charme è meta di pellegrinaggio sin dal Nord America. Certo a Lutero e ai suoi eredi i santi e la Madonna non sono mai garbati molto, e così il centro cittadino ruota intorno alla vita e alle opere di chi (insieme a The Man) diede il via a mille nuovi religioni (come piaceva ricordare ai cattolici, il destino delle Chiese riformate pareva essere quello di suddividersi all’infinito in unità sempre più sparute). 


Causa della mia gita fuoriporta (sempre di Sassonia Anhalt trattasi) la cosiddetta Winter School, una tre giorni di intensi seminari accademici e altrettanto intenso sbafare a spese dell’istituto cui afferiamo. A caval donato, si sa, non si guarda in bocca, così passi se qualunque cosa ci arrivi nel piatto sguazza in grasso liquido di non precisata natura. Tutto riluce di Maggi, Knorr e Fix und Frisch, e lasciare nel piatto gli avanzi non servirebbe a molto, perché il sospetto è che quanto non si ingolla al momento venga riproposto nella zuppa del giorno dopo


Alloggiamo alla residenza universitaria “Leucorea”. Wikipedia può così provare a convincermi che fu il capriccio classico d’aver voluto ribattezzare “montagna bianca” (Wittenberg) con un tocco di grecismo: a me il nome ricorda solo la quasi omofona e omografa malattia. L’aria è quella di un ospedale austero, o forse sono i fumi della digestione, e all’esterno una serie di pannelli ricorda i nomi di chi transitò nei gloriosi ranghi dell’università fondata nel 1502. Certo nessuno può brillare più dell’idolo di casa, ma zompettando fra i nomi si ritrova Giordano Bruno, che forse avrebbe fatto meglio a non tornare a più focose latitudini, ma anche Anton Wilhelm Amo, primo africano in un’università europea. Sulla mappa d’Europa appesa all’ingresso, uno sticker dell’eroe di casa troneggia inghiottendosi tutta l’Europa e mi pento di non avere con me una macchina fotografica. Mentre saggio quanto regge la colla, la signora che distribuisce le chiavi delle camere mi ammonisce di lasciare come trovo. Insomma, la mia matrice papista dovrà rassegnarsi, almeno per un po’, alla vittoria senza campo del luteranesimo. 


Nel pugno di metri lungo cui si snoda il centro, oltre a delle statue, anche la casa di Melantone (a me è sempre piaciuto di più il suo cognome originale, così mi è sempre sembrato a metà fra un succo o, in latino o crucco, un compare di Tonio Cartonio) e l’atelier dei due Cranach, pittori ufficiali della Riforma. Purtroppo non riusciamo a farci un salto, resteranno in agenda per una puntata futura, magari senza bufera di neve. 
Quanto alla chiesa della discordia, ahimè, non solo non è una gran beltà, ma è tutta ingabbiata in transenne e impalcature. Nei pochi momenti liberi, tentando una digestione ambulante, proviamo a più riprese un’incursione, ma non c’è niente da fare: non ci sarà concesso vedere la tomba della star locale. Tuttavia, seppur la combinazione spatzle con brasato e raffica di presentazioni accademiche un po’ mi annichilisce, non posso che fermarmi qualche secondo davanti al portone, dove le tesi un tempo affisse sono state riprodotte. Per un attimo penso al sogno dell’unità di fede spezzato, rincorso per almeno due secoli a suon di guerre, rivolte, roghi, concili, propaganda, e per quanta umanità quella porta tutto sommato senza pretese è stata fatale. È solo un secondo, la collega cinese mi spiega qualcosa sulla falange del dito di Buddha spostato in un nuovo tempo a Xi’an per poter raddoppiare il biglietto d’ingresso, e torno a crogiolarmi nell’eurocentrica illusione della tolleranza.


Del resto, quando cercherò di ricordarmi di Wittenberg, penserò piuttosto all’unico altro vanto della cittadina: il pub dove lavora il miglior barman di Germania, ovviamente si chiama Martin (Kramer, però). Il pub si chiama “Bitter-süß” (dolce-amaro), come lo sguardo che getto sulla statua dell’ex suora Katharina von Bora. Sulla via della stazione incrocerò di nuovo un cartonato di suo marito, stavolta che regge l’insegna di una birreria: provo ad immaginarmi San Francesco che fa da consulente alle guide del Gambero Rosso e poi torno, mestamente, alla mia lotta personale contro la triade Maggi-Knorr-Fix und Frisch.