giovedì 18 dicembre 2014

di tartarughe



Vittima di un´ondata di fancazzismo piú pervicace del solito, in questi giorni zompetto qua e lá per il web e leggo una serie di schermaglie tra “expats” e “non expats”. 

Chi parte e molla il suo Paese é un codardo; chi non parte e resta dove é nato é un codardo; chi dichiara di non avere nostalgia di casa é un bugiardo; chi resta non ha diritto di giudicare chi parte Ci sono gli expats che sostengono di schivare sistematicamente I compaesani per non rischiare di compromettere il loro processo di “going native”; e quelli che non lasciano l´Italia e si inalberano se partono fuoch incrociati contro le patrie elezioni dai social network degli expats.

Mah.

Semplicemente, non potremmo essere liberi di stare od andare, fermarci, ripartire, ripensarci, senza dover sempre e per forza giustificare una mossa? Ci pensano  comunque confini, scartoffie  e circostanze varie ed eventuali a randere l´una o l´altra opzione non cosí semplice come potrebbe essere in un mondo ideale. 

Io mi dico che se fossi restata dove sono casualmente venuta al mondo, forse ieri non avrei sputato la torta ai fagioli rossi dell´amica cinese, non avrei cominciato a biascicare in un pidgin che neanche io capisco e nemmno mi sarei ritrovata esperta consulente gastronomica. O magari anche sí, chissá. 

Il fatto di essere partita non mi rende né piú audace né piú egoista di altri, o almeno cosí la vedo io. Certo che quando torno riempio lo zainetto del bagaglio a mano con grana padano e merendine Mulino Bianco, e anche io a secondo delle lune e del personaggio che voglio inscenare mi lusingo o mi irrito se mi scambiano per una crucca. A casa tutto ha un sapore piú buono e le persone sorridono di piú;  a casa tutto funziona peggio e le persone cercano di fotterti appena ti giri; a casa mangiano salsicce pallide per colazione e la mia squadra ha vinto la Coppa del Mondo. 


Cos´é “casa”, se non il guscio di affetti, abitudini, preferenze della tartaruga che siamo, ognuno a velocitá diverse, chi si muove per terra, chi per mare e chi proprio non si muove? 

E alura?
E alura a ´l sares po a ura de metes a dré.

Mi sa che tocca fare la casalinga, qui come lí: la festicciola di compleanno sino-italica di ieri ha lasciato piatti e bicchieri da lavare e la lista dei to do giace sempre e comunque inevasa sul tavolo.
Mi riprometto di confidare I miei voi pindarici al primo orecchio paziente stasera, mentre si berrá cognac kirghizo e acqua calda á la chinoise, sgranocchiando succulent tocchetti di tofu oleoso e Kartoffelnsalat, imprecando perhcé i figli dei colleghi frignano contemporaneamente in russo, arabo, mongolo e dialetto sassone. 

Tutto va bene, purché  F., la cinese, riproponendo la sua fantomatica torta di mele, si ricordi che sostituire lo zucchero col sale non é una buona idea, anche se a loro ci piace poco dolce.

lunedì 13 ottobre 2014

La Cina é vicina



We are qi mates” R. ripete sorridendo mentre sorbisce una zuppa ai semi di fior di loto. Io cerco di dissimulare una certa perplessitá: la zuppa è gelatinosa e di un gusto zuccherino che le mie papille non riescono a decifrare ed apprezzare.

Il “qi” per me era, fino a poco tempo fa, l´acronimo di "quoziente intellettiv"o, adesso so che  ha a che fare con quella che i tedeschi- credo- chiamerebbero l´Austrahlung: una specie di aurea che ognuno di noi ha,che traspare dai gesti, dalle parole, dalle espressioni. R. disquisisce animatamente con D. e S. per descrivere accuratamente il mio qi, io sorrido sperando di lasciar trapelare la parte migliore della mia "energia vitale".

Siamo a cena tutti insieme, tre cinesi che vengono da cittá distanti 3.000 km fra loro, un tedesco di genitori turchi, una messicana e una italiana che parlano cinese e me. Io non capisco una parola, e proprio per questo quanto mi spiegano che esiste un´espressione per indicare la “linea bianca del chicco di riso” (bai wu), qualcosa dentro di me sorride, di un sorriso profondo che un tempo avrei pensato provenire dall´anima. Forse è il mio qi, quel respiro che fa di me quel che sono, che si allarga di gioia. La comunicazione stasera è ardua: ogni mio senso è all´erta, proteso a cogliere le espressioni dei visi,  una parola fra mille che mi ricorda qualcosa di noto (“Italii” oppure il mio nome), i gesti. Intanto D. e S. esaminano i chicci di riso Carnaroli che non han mai visto prima, mentre R. mi spiega che in antico cinese ben 7 diverse parole traducevano "riso", a secondo dello stadio di cottura. Il mio qi, allora, trova molto appropriato e calzante manifestarsi in "riso", visto che dai noi significa anche ridere, e mostro tutti i miei 31 denti permanenti e quello da latte che rimane.

Non so se il qi possa assumere diversi stati, ma mi piace pensare che un po´sia cristallizzato nelle lacrime involontarie che mi causa l´eccesso di spezie. Non ho idea di quali abbia usato R. per condire il pollo con le noccioline o l´insalata coi funghi “orecchia di maiale”, tantomeno per rendere il tofu, che quando cucino io sa di plastica viscida, una leccornia che ci disputiamo a tavola.

Ogni cinque minuti qualcuno versa della birra e brinda, possibilmente con un piccolo inchino e poi bevendo alla goccia. Spesso mi lasciando il fondo della bottiglia, pare porti ricchezza nonostante il saporaccio. Riesco ad intrufolarmi ogni tanto in qualche discorso, ricorro a tutto il mio repertorio di gestualità e provo a ripetere quello che sento con effetti sempre distorti. Colgo un “nigga is fat” che non può essere tale, ma perlomeno mi ricordo che “nigga” è una specie di “praticamente”, non ha un vero significato e lo si infila spesso mentre si parla, poi mi sembra di udire “pizza” e riesco ad accordarmi per mangiarcene una insieme. Pare che in Cina servano tutt´altra pizza. Del resto le mie fauci triturano con gran gaudio piatti del Sud Est del Paese che non ho mai nemmeno adocchiato nei ristoranti cinesi bazzicati in mezza Europa. 

R., che non è cinese ma della Cina ha fatto una sorta di patria d´adozione e di studio, pazientemente fa da tramite e cosí l´altra R., la mia compagna d´ufficio dello Yunnan.  Come un bambino goffo tento ripetutamente di usare le bacchette, osservando di sottecchi i miei vicini che con ritmo incalzante si spazzolano tocchetti di carne e tofu, ma finisco per spargere cibo tutti intorno e ad avere un indice indolenzito. Sono un po´ sfigata, forse, o “pelo pubico”(diao si), come tradurrebbero loro. Mi rassegno ad usare forchetta e cucchiaio, consolandomi perché forse potrei figurare come comparsa esotica e caricaturale in un video di Jay Chou, idolo rap di cui ascolto in loop un pezzo che fa la parodia della corruzione degli eunuchi alla corte imperiale che fu.

Giá, la Cina che fu, la Cina che é, e soprattutto e sempre di piú, la Cina che sará. Cosa ne so io, storica della mutua, giovane dalle aspirazioni internazionaliste della Cina? Bah, un paio di paragrafi sulla rivolta die Boxeur, un compartimento stagno e stagnante delle mie nozioni targato “Guerre dell´Oppio”  e la faccia di Mao. Quando si rammenta Tien An Men fingo di saperla lunga, ma per me è una definizione presa da Wikipedia o poco piú. Poi tanti titoli di giornale: la Cina mai quanto ora è vicina. Tutti i bar del mio paesello natale e di quelli accanto sono stati rilevati da cinesi, una schiera laboriosa e silenziosa, e ogni volta che torno c´è un negozio di vestiti in piú. Le solite cianfrusaglie cinesi, paccottiglia a poco prezzo, già mi vedo un esercito di operai sfruttati che dorme nel sottosuolo delle nostre cittá, rubando lavoro e immettendo sul mercato merce non conforme ai mille marchi che abbiamo. Intanto R. compra all´ingrosso, qui ad Halle, latte in polvere di produzione tedesca “perché in Cina non ci fidiamo del nostro, la mia famiglia preferisce spendere per la spedizione”.  Intanto la commessa di Max Moda, in provincia di Bergamo, carina e sorridente, cerca di convincermi che la giacca mi sta a pennello, nonostante le loro XL mi strappino sempre spergiuri di mettermi a dieta e ammazzarmi di palestra. 

Nel tema della mia tesi mi imbatto ogni tanto in eruditi olandesi, tedeschi, francesi, inglesi che per la prima volta scoprono la Cina. Non si muovono dal loro studiolo nel Vecchio Continente, se non per un pellegrinaggio culturale a Parigi, Roma e Lipsia, i piú temerari anche a Londra. Il ´600 ha dato il colpo di grazia alle speranze di unità della Respublica Christiana, guarda inconsapevole al ´700 e le sue promesse di Lumi. Grazie alla stampa, gli ugonotti in fuga dalla Francia si reinventano letterati e nelle lettere che scambiano assiduamente con mezza Europa costruiscono la Repubblica delle Lettere, mentre il volgo muore di peste a Napoli o decapita un re in  Inghilterra. Se ne stanno lí, i miei cari eruditi, e dai confini del Creato trapela notizia di documenti tanto antichi da mettere in dubbio i calcoli fatti Bibbia alla mano sull´età del mondo. Montaigne leggendo i resoconti di avventurieri e missionari, scopriva che in Cina non si usavano fazzoletti, e passava per scettico immaginando che, forse, ai Cinesi sarebbe parso strano che in Europa il muco si conservasse gelosamente in preziosi straccetti di seta, magari pure adornati di iniziali.

Io, prodotto della generazione RyanAir, ho a malapena superato i confini del mio piccolo, beneamato angolino di mondo, quella frazione di mappamondo che cerca di unirsi sotto l´egida di una bandiera stellata e ha Stati sedicenti nazionali che si trovano solo zoomando su Google Maps. Sorrido ancora, quando vedo la pubblicità di un ristorante di cucina tipica italiana di Pechino sfoggiare una bionda in dirndl con un boccale di birra e un pretzel in mano. Eppure, beh eppure se chiedessero a me di buttar giú uno slogan per qualcosa di cinesi, potrei solo far lo schizzo di qualcuno con gli occhi a mandorla e un capello a punta che accarezza un panda.

I cinesi, in fondo, non sono poi creature cosí malefiche. E non sono  neanche così simili fra loro. Tutti quelli che incontrato qui, addirittura, sono desiderosi di comunicare e condividere.  “Mare Orientale” e “Albero in Piedi”- potrebbero essere compari di Toro Seduto- li ho adescati per caso in un pomeriggio d´estate qua ad Halle. Nel computo delle teste, le nostre squadrette di calcio mancavano di uomini, e lí vicino giocavano “asiatici”. Da allora, la domenica abbiamo il nostro rito e ci incontriamo o meglio scontriamo, del resto per far goal non serve condividere una lingua. 

Finiti i piatti cinesi, A. ha portato un tipico dolce tedesco, un vero insulto alla linea: la torta della foresta nera, una montagna di panna, cioccolato e ciliegie. Ne avanza metá, ma mentre digito, R. vicino a me se ne sta divorando una porzione ragguardevole per pranzo, del resto nella cucina cinese dolce e salato non vanno necessariamente separati. Prima di andarmene, noto che D. scruta interessato il pacchetto di frollini portato dall ´Italia. Sono i miei preferiti, rustici con crema di riso, ogni volta che ne intingo uno mi dico che Proust con la sua madeleine c´aveva davvero azzeccato. Apro il pacchetto e gliene offro uno. Lo soppesa, lo rigira, dice “ah si si, mi piace”, ma sono convinta che non ne ha mai visto uno. Il solito pilota automatico della gentilezza cinese. Lo sbocconcella cauto, poi si illumina ed esclama “oh, good, good, very good. I like!”. Gli tendo il pacchetto e gli dico di portarselo a casa, lui salta indietro dicendo “noooo”. Lo convinco che torno in Italia fra poco, me ne procurerò altri, gli mostro il girovita e forse travisa e pensa sia incinta. Infine trotterella a casa tutto contento, mostra il trofeo  e mi viene tradotto che ha annunciato fiero che IO ho dato i frollini a LUI come regalo.

In quel gesto da nulla, nei frollini dell´Iper presi in offerta, penso ancora al secolo dei miei studi, al valore rituale del dono. La mia comunicazione con D. è al minimo, eppure suggelliamo un piccolo patto: la prossima volta berremo liquore cinese per digerire qualcosa di italiano. Non so ancora come cercherò di eguagliare la perizia ai fornelli dimostrata da R., ma confido nei tutorial onlin di Giallo Zafferano  e in qualche dritta materna. 

Tornando a casa, il mio qi è soddisfatto e contento: a pancia piena si sente meglio e si stiracchia, ma gli ci vuole davvero un nonnulla per piombare in un sonno profondo e speziato. 

Oggi, secondo R., sembro proprio un "panda contento":  快乐熊猫 .(kuai le xing mao)

giovedì 12 giugno 2014

Di pelate



Quando dalla capoccia di un uomo si cominciano ad intravedere i pensieri, si sa, la strada è in discesa verso la pelata, calvizie, fronte alta. Insomma, “der Kopf wächst durch die Haare” (la testa cresce fra i capellI”).

Mettetela un po´come vi pare, ma non riusciremo mai a coniare un termine elegante come quello crucco.  Come al solito, ad ogni problemino estetico si ovvia con una scusa: pochi capelli, si dice, tanto testosterone, come nella botte piccola c´è il vino buono etc etc. E anche per i tedeschi il crine che recede deve essere camuffato con una perifrasi che lo associ a qualcosa di cui potersi vantare. 

Cosí a stempiatura è “Geheimratsecken”, ovvero gli angoli del consiglio privato. Eh sí, criniera che se va, saggezza che arriva, cosí che i consiglieri piú vicino all´imperatore erano probabilmente tutti uomini di una certa etá. Della stessa razza, ma dal sapore meno assolutista, anche il “Ministerwinkel”, gli angoli del ministro, e Ratsherrenecken”, gli angoli del consigliere. 

Che la pelata sia garanzia o meno di senno, alle volte é frutto della consunzione coniugale e di tutti i grattacapi che si porta appresso, come indica “Ehestandsecken”, gli angoli del matrimonio.

Per i prosaici, il termine piú comune è “glatzköpfig” oppure “eine Glatze haben”. Elementare, Watson: deriva da “glatt”, liscio. Avvicinandosi ai trenta, tuttavia, si collezionano sempre piú calvi fra le cerchie di amici, e serve equipaggiarsi con una serie di sinonimi, giusto per avere variazioni sul tema. Inequivocabile “Platte”, cioè lastra, spianata. Un tocco piú elegante consentono “gelichtet” (diradato) e “kahl” (brullo). 

Quest´ultimo termine in combinazione con “geschoren” è la rasatura a zero cui molti consiglieri privati ricorrono per dare una parvenza di  volontarismo a quanto, invece, è spesso solo il decorso di madre natura. Finiranno, probabilmente, kahlschlag, completamente diboscati. 

Ognuno ha i suoi gusti, ma di certo giá i buoni, vecchi greci con “alopecia” si buttavano sul metaforico, alludendo alle volpi che ciclicamente perdono il pelo. 

Per consolarsi, ci si puó sempre ripetere che “col vento è meglio una pelata di una parrucca” (“Eine Glatze ist im Wind besser als eine Perücke”) .


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Grazie all´indefesso lettore Federico, muso ispiratore di questo pezzo. (su segnalazione,  sicuramente vanta una chioma invidiabile).

venerdì 30 maggio 2014

Salsiccia in tutte le salse








Signore e signori, oggi „es geht um die Wurst“. Ebbene sì, quando si parla di questioni cruciali, in tedesco si tratta di salsiccia. L´onnipresente Wurst, patrio e versatile orgoglio culinario o dileggiato simbolo di vetusta germanitá cui si preferisce del tofu, ha una certa duttilità anche a livello linguistico. Del resto, tutto ha una fine, solo il Wurst ne ha due  (“Alles hat ein Ende, nur die Wurst hat zwei”) e quindi permette un´infinita serie di combinazioni sia nel piatto, sia nelle espressioni idiomatiche.  Lo dimostra  Hans Wurst, personaggio della commedia tedesca che simboleggia il contadino qualunque e sempliciotto, tanto che oggi dare dell´”hanswurst” significa dare dello stupido

La salsiccia è l´emblema della socialità germanica: al primo raggio di sole si è tutti intorno ad un bel barbecue all´aperto e ognuno a turno sta alla griglia. Per questo se qualcuno è particolarmente gentile e amabile nei vostri confronti, potrebbe fare un´eccezione e arrostire un Wurst solo per voi (“jemandem eine Extrawurst braten”). Ritenetevi fortunati, avete avuto “culo”, o alla tedesca, avete avuto maiale (“Schwein haben”). 

Accompagnamento immancabile è il pane, ma in tempi di magra anche senza si lascia apprezzare (“in der Not schmeckt die Wurst auch ohne Brot”). Non è però vero il contrario, perché se qualcuno vi ruba la salsiccia dal pane, beh, in Italia vi starebbe rubando il pane di bocca (“Jemandem die Wurst vom Brot nehmen”). 

Se da noi si va di carboidrati dando pane al pane e vino al vino o finendola a tarallucci e vino, in Germania sarebbe meglio che le salsicce stiano con le salsicce, che non si comparino cioè pere con le mele, come dice ogni buona maestra elementare quando spiega gli insiemi (“Wurst wider Wurst”). 

Insomma, pur riconoscendone l´essenzialità, il Wurst è spesso sinonimo di qualcosa che si trova sempre e comunque, di non particolarmente squisito o raffinato. Così il nostrano “non me ne frega niente” si traduce con “es ist mir Wurst” (o anche “Wurscht”). Addirittura se uno è sempre apatico ed indifferente, la diagnosi è “Wurstigkeit”: nei casi più disperati chi ne è affetto potrebbe non riuscir nemmeno più a prendersi la sua salsiccia dal piatto (“keine Wurst vom Teller nehmen”)  . Per raffazzonare, fare le cose un po´come capita, si dice che “si salsicceggia” (“es wird weitergewurstelt”) e chi si trascina senza combinare granché, cazzeggiando, come dire, userá il verbo “durchwursteln” o “herumwursteln”. 

Per provare a dare un tocco di sapore in più alla salsiccia magari venuta insipida c´è sempre la senape, cosí qualcuno che voglia sempre dir la sua e metter becco sará qualcuno che “seinen Senf dazu gibt”. Il saputello di turno è capace pure che poi si immusonisca se gli si fa notare che la sua opinione non è sempre e comunque richiesta, in tal caso fará la salsiccia offesa (“die beleidigte Wurst spielen”). 

Infine un parallelo tra il culinario e il sociologico, perché se da noi potrebbe anche essere meglio un uovo oggi che una gallina domani, l´etica del lavoro luterana suggerisce piuttosto di privarsi della salsiccia se c´è speranza di poter agguantare del più raffinato prosciutto poi. (“mit der Wurst nach dem Schinken werfen”). 



Certo, sono pillole di saggezza dal sapore antico e premoderno, probabilmente coniate quando tutti noi ancora nuotavamo nel calderone del Wurst di Abramo, ovvero ancora non eravamo nati (“noch in Abrahams Wurstkessel schwimmen”). In questo caso, addirittura, il riferimento è biblico e paragona il nascituro alla salsiccia, la vita al Wurst. 

Verrebbe quasi da dire che, quando si disquisisce di salsicce, almeno in Germania c´è pane per proprio tutti i denti.