Al solito: si ascolta, si legge,
si scrive e si parla. Come da prassi, in aula solo penna, documento d’identità
e una bottiglietta d’acqua, uno sguardo all’orologio e via. Io mi sono portata
anche una dose cospicua di pocket coffee, a fine giornata almeno potrò dire che
la tachicardia è solo dovuta ad eccesso di caffeina e non al mancato aplomb in
sede d’esame. Come me, altre migliaia di persone intorno al mondo stanno facendo lo stesso test, nelle stesse ore, al netto del fuso orario: il DAF è la chiave per poter studiare in Germania, dove le tasse universitarie sono molto basse o, addirittura, inesistenti.
Ma, come ogni assembramento di
esseri umani, anche questa splendida mattinata di ghiaccio e sole mi permette
di esercitare gli occhi in un po’ di human watching spicciolo, sguazzando negli
stereotipi e nei luoghi comuni che mi piacciono tanto.
Il mio numero d’iscrizione mi
assegna ad un’aula dove noto solo occhi a mandarla: vicino a me scorgo un P.Lee
che il passaporto mi suggerisce essere coreano. La lista include cinesi,
giapponesi, thailandesi. A salvare l’onore dei caucasici, quando ormai stavo
per perdere ogni speranza, si palesa un ingombrante danese, ovviamente di
cognome fa Larsen. Ogni volta che alzo
la testa dai fogli per sgranchire i pensieri, l’unico altro capo che incontro
sulla mia linea di vista è la sua, che sovrasta l’esercito di calotte craniche
nere e che non si ergono sopra il metro e sessanta.
Dalla schiera degli asiatici (non
riesco proprio a distinguerli, potrebbero avere dai 15 ai 42 anni) fa capolino
una certa T. Pan che, infrangendo le regole, necessita dei servizi dopo l’inizio
della prova. L’esaminatrice bavarese tentenna: telefona ad una collega che
scorterà la debole vescica in bagno. Il mio compagno di melanina freme nella
sua hipsteritudine: “Scusi, non è problema nostro se lei non ha pensato prima
ad andare in bagno”. Solo il giuramento di una protocollazione del fattaccio
cheta lo scandinavo sdegno, e la prova prosegue, fra sospiri e fruscii di
fogli.
Ogni tanto, in mancanza di
ispirazione personale, mi verrebbe da sbirciare quanto scrive P.Lee, ma è talmente raggomitolato sul banco,
scrive talmente minuscolo, che sarebbe solo fatica sprecata. Dietro di me, una thailandese
il cui cognome occupa due righe si è tolta le scarpe, lo capisco dopo un certo
obnubilamento mentale, che combatto a suon di pocket coffee perché le finestre
non si possono aprire. Quando mi incaglio su un ostacolo grammaticale troppo
ostico, indugio sull’unica distrazione visiva che mi è concessa: un’enorme
cartina della Repubblica Federale, che troneggia su tre quarti della parete.
Nel mio campo visivo c’è, guarda caso, il Baden Wurttemberg e così il mio
screen saver mentale sono Memmingen, Reutlingen, Tubingen e tutta la ridda di
città e paesucci che così finiscono.
‘ngen, ‘ngen, ‘ngen è il nuovo
zen.
A metà esame abbiamo 3 quarti d’ora
d’aria, se così si possono chiamare. Possiamo pascolare tra le aule, il corridoio
e i bagni, guai a chi armeggia con cellulari, per non parlare di voler uscire
dall’edificio. Il buon Larsen si avvinghia alla macchinetta del caffè e ne
prosciuga qualunque bevanda disponibile (calcolando che: latte macchiato, cappuccino, cioccolata cremosa e milchkaffee sono tutte la stessa, zuccherosa brodaglia). Con buona pace mia, noto che il
deflusso dalle altre aule conforta la proporzione demografica ormai imperante:
oltre ai soliti asiatici, ci sono indiani e nordafricani. O forse è solo perché,
iscrivendomi all’ultimo minuto, l’unico posto disponibile trovato era al
Eurasian Institute?
In effetti, alle pareti
campeggiano festose foto di scambi culturali algerino-tedeschi, sino-turchi e tutte
le possibili varianti intermedie. La AOK (assicurazione sanitaria) ha
tappezzato le pareti con cartelloni ammiccanti in arabo (credo) e cinese (credo)
con tariffe scontate per gli studenti. I dirimpettai di piano sono l’associazione
turca di Berlino, e lasciando ‘ngen per riposare lo sguardo alla finestra, è al
canale di Kreuzberg cui rivolgo i miei sospiri di esaminanda.
Nonostante siano solo le 11.00,
qualcuno ingurgita profusioni di panini, e c’è chi osa, addirittura, ingollarsi una lunch box
raccattata a qualche untuoso take away. In un angolo ritrovo qualcuno di
caucasico: Svetlana sta parlando fitto con Ekaterina, e addirittura poco dopo
sento una litania contro l’esame in spagnolo, ma con chiaro accento brasiliano.
Mi conforta constatare che non tutti i carioca sfoggiano fisici da Copacabana. Più
in là, una minuscola asiatica (mi sbilancerei: thailandese) cerca di impietosire
l’inflessibile esaminatrice a lasciarle tempo per trascrivere le risposte sul
formulario apposito.
Risoluta a non violare la dieta
di soli pocket coffee, butto un occhio in aula: i vari Lee, Pan, Chin sono
tutti ancora in classe. Quella senza scarpe dorme, evidentemente a comando, e
quasi sembra non respiri. Il mio vicino ha chiuso gli occhi, ma è ritto come un
fuso: sospetto che abbia un chip impiantato nelle palpebre e che ora stia
ripassando la declinazione degli aggettivi mentre finge un pisolino di
riflessione.
Ma il vero momento di breakdown
arriva quando siamo tutti a tu per tu con un computer e incuffiati e dobbiamo
sostenere l’orale: a tutti sono propinate le stesse domande, e tutti
contemporaneamente diamo il nostro meglio. Significa che, ogni volta che ho
finito e attendo il beep finale, in sottofondo ho una ridda di blablabla
cruccofoni senza R, fatto salvo il solito danese. Sembra un po’ di stare dentro
un macchinario per la TAC, bombardati da suoni indistinti e con lo stesso
nervosismo. Anche perchè, solo in un esame di crucco poteva esserci come prova (anzi, ben due prove), quella di descrivere un grafico e le sue variazioni.
Alla fine, quando l’esaminatrice pronuncia
la fatidica parola “fine”, si sciolgono i ranghi. Anche il mio vicino coreano
acquisisce sembianze umane, mentre si ingiacca e si indirizza verso la metro: avrò spento il microchip oculare.
Prima di tornare alle faccende
quotidiane, mi sembra d’obbligo tributare omaggio all’eurasiatismo del
quartiere, e mi lascio andare alla deriva al mercato turco di Maybachufer dove,
probabilmente, nessuno sa cosa sia il test DAF, ma pomodori e arance hanno
sapore di casa, così come il baffo che in loop urla “Ein Kilo, ein Euro schöne
Dame, ein kilo, ein Euro” e la signora che nel suo trabiccolo impasta torte
salate.
Tornando a casa con variopinti sacchetti di spezie, verdure e un pane arabo, dimentico i dolori dell'esame, almeno fino al momento della verità: tra 6 settimane, insieme a tutti gli altri esaminandi del globo di questa tornata, avrò il riscontro.
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