venerdì 2 novembre 2012

un post del cazzo


Il mio studente L. è violista all’opera: conosce a memoria “Le nozze di Figaro” e, quando arranco sulle scale per andare a lezione da lui, con ancora evidenti i segni del mio flirt toccata e fuga con Morfeo, mi accoglie con “ero ansioso di vederti” e poi infila qualche rima forbita. Poco dopo, però, gli spiego che “augello” è il prosaico “uccello”, e scopro che in romeno (la sua lingua madre), si traduce con “passera”. Al che urge una nota ornitologica e un excursus fra passere e uccelli. Il che mi porta, inesorabilmente, a ricordarmi che avevo promesso all’altra metà del cielo un post ad hoc, dopo la disputatio ficae.
E per non sottrarmi alla par condicio, provo a cimentarmici (volevo proprio usare questa parola cacofonica, oh sì).
Dunque, cosa sia il “cazzo” è abbastanza risaputo. Prima o poi, tutti gli studenti germanofoni cadono sull’uccello (riposa in pace, Mike), cercando di tradurre “Katze” (gatto, che suona “cazze”). Ormai reagisco con aplomb british e correggo in automatico, senza colpo ferire, la distinta 50nne di turno che mi compita tutta concentrata “io amo i catzi e ho un catzo a casa”.
Al solito, sono le mille accezioni accessorie a sfuggire anche agli studenti più diligenti, ed è solo per probo senso del dovere, quindi, che sciacquo i panni non nell’augusto Arno, bensì li inzacchero nelle profane pozzanghere della lingua parlata. Chi mi conosce, ben sa che mai e poi mai mi macchierei di turpiloquio, no?
Innanzitutto, il “cazzo” è espressione quasi complementare a “figa”, che a suo tempo avevo tradotto con il polivalente (ma molto meno saporoso) “krass” teutone. Per cui, ci si avvale dell’ammennicolo maschile per una gamma di reazioni che vanno dalla sorpresa (“C! non ci posso credere, Berlusconi è davvero tornato in politica!”) alla scocciatura (“ma no, c., il treno è di nuovo in ritardo”). La scelta fra l’una o l’altro delle gonadi è assolutamente personale, forse regionale. Dalle mie parti è molto più in voga lei di lui, ma basta spostarsi di 50 km, e nel capoluogo meneghino ci si imbatte quasi solo in “minchie” importate dalla Sicilia, che han finito  per fare come i conigli in Australia ed avere il monopolio dell’esclamazioni locali.
Tuttavia, il “c.” non indica, come logica potrebbe suggerire, un bel ragazzo, così come “f” indica una bella ragazza. Per gli uomini la sineddoche non vale, e si ricorre ad un più impensabile “figo”.
Ma anche l’organo maschile è abbastanza versatile, ad esempio in coppia con “volere” e “dire” e accompagnato dal gesto che ci connota un po’ in tutto il mondo (vedi sotto ), è una classica espressione che non si può esattamente tradurre con “Was   für einen Schwanz willst /redest Du”.

Quando si aggettiva, il “c.” oscilla fra qualcosa di positivo (“cazzuto” è qualcuno, pensa un po’, “con le palle”, intrepido e sicuro di sé) e, al contrario, qualcosa di scadente (tutto ciò che è “del cazzo” non ha alcuna afferenza pubica, bensì è semplicemente fastidioso, inutile, imbarazzante. Possono esserci “situazioni del c”, ad esempio). I più fini linguisti, poi, scomodano i “controcazzi” per designare qualcosa o qualcuno di veramente superlativo, per cui il semplice organo risulterebbe troppo dozzinale.
Non mi diletto di psicosomatologia, ma parrebbe che alle nostre latitudini, l’organo sia coinvolto nel pathos, visto che ci si “incazza” (arrabbia), ma anche ci si “scazza”, ovvero ci si annoia o irrita. Chi è “scazzato” non è necessariamente un eunuco (come suggerirebbe la S “privativa”), semplicemente esprime in maniera un po’ meno dandy il male di vivere che altre, più auliche voci, definivano come “spleen”. Probabilmente, lo scazzato in questione sarà poco socievole e auspicherà che chi gli sta intorno si faccia un po’ “i c. suoi”, ovvero badi alle proprie faccende, senza interferire nella sua sfera privata che, si sa, metaforicamente coincide con lo spazio occupato dai gioielli di famiglia.
L’intruso di turno potrebbe subire un bel “cazziatone”, ovvero una ramanzina dai toni piuttosto accesi. E lì, potrebbero davvero essere cazzi. Ora, si noti la bellezza intrinseca del semplice enunciato minimo di scolastica memoria “sono cazzi”. Potrebbe sembrare una semplice frase da manuale di lingua per principianti, ed invece serve un fine conoscitore dell’italica cultura per sviscerarne il recondito significato: quando si intravedono gonadi maschili all’orizzonte, non sono i California Dream Men in libera uscita, piuttosto guai in arrivo.
Se poi tali organi sono pure “amari”, allora altro che il gaio motivetto di Pupo: c’è da correre presto ai ripari. (Forse L. apprezzerebbe questa rima così naive). Del resto, con la semplice particella "non", mi vien da aggiungere che "non ci sono cazzi"(o, essendo a Berlino, ce ne sono parecchi, ma tendenzialmente apprezzano i loro simili): certe espressioni sono proprio intraducibili, specie per i corretti tedeschi.
Direi che la mia quota giornaliera di cazzeggio si è esaurita, dopo aver vergato cotali sublimi righe. Non mi resta che tornare ai cazzi e mazzi quotidiani, fiera di aver contribuito alla promozione dell’idioma patrio, seppur sempre così, un po’ alla cazzo (speriamo, almeno, non proprio “di cane”, visto che tutto ciò che è canino tende ad essere dispregiativo. Del resto, se qualcuno mi rimproverasse di trattare temi troppo raffinati, risponderei che solo "col c." mi darei a qualcosa di più volgarmente ludico).

Nessun commento:

Posta un commento