Con la dieresi ho sempre avuto un rapporto controverso. Per quanto allenata
dal dialetto dei nonni, che in quanto ad ö ed ü non è certo parco, ogni tanto
la mia lingua si impigrisce e si inceppa su quei due puntini.
Se poi c´è lo zampino di qualche T9, per cui tu cerchi l´indirizzo Pfalzerstraße,
e invece la meta sta a Pfälzerstraße, solo quando il magnanimo
passante di turno sfodera uno smartphone ed è a sua volta molto smart,
l´inghippo si risolve.
Il mio più recente scontro frontale con quei due puntini che promettono
solo di modificare il suono di una vocale:
Io “ho bisogno di busen”
J “scusa?”
Io “ma sí, in questo periodo voglio busen, contro la tristezza”
J “forse intendi büßen?”
Io “bah, sí, quello che si fa in chiesa”
J “…”
I puntini si interpretino come “perplessitá teutone con una risata che
rimane a mezza bocca perché non sa se è politicamente corretto ridere o meno”.
Ovvero: la dieresi come catalizzatore sociale italo-crucco.
Eh sì, perché “Busen” è seno, il suo quasi omofono ed omografo con la
Umlaut, invece, è il verbo “espiare”. Quindi ho ripetuto di aver bisogno di Holz
vor der Hütte, ovvero legna davanti alla capanna, come indicano qui una
misura di davanzale abbondante. Da tenere a mente soprattutto per anime pie,
affinché non esordiscano in confessionale come esordirebbero da un chirurgo
estetico.
Scivolone analogo, tra dieresi e scollature, è quello fra “Brust” e “Bürste”,
per me ahimè recidivo.
Io “ti consiglio il museo di Otto Weidt: piccolo, gratuito e interessante.
Un piccolo Schindler di Berlino, che nascondeva famiglie ebree nella sua
fabbrica di Brüste”
N: “fabbrica di cosa?”
Io: “una fabbrica di Brüste, prodotto piuttosto richiesto anche nel III
Reich”.
Bürste è la spazzola, Brust è sempre il seno. Mio malgrado, però, ho forse fatto
guadagnare al museo incuneato in uno degli Höfe sulla Rosenthalerstraße un
visitatore in più. E quando si aggirerà in cerca di protesi di seni, forse sorriderà
alla mia incallita avventatezza linguistica.