martedì 29 gennaio 2013

Sir Pilade, acque mirabolanti e prestazioni sociali



A queste latitudini, è risaputo, la socialità è spesso proporzionale al rischio di coma etilico. Così dopo il seminario del lunedì, si finisce sempre in un manipolo più o meno ristretto ad uno dei (pochi) pub che Halle offre. E il potere di collante della birra si rivela in tutta la sua forza: transgenerazionale, transdisciplinare, translinguistico.

Ieri al tavolone sedeva un attempato professore giunto da Lipsia che ha sventolato per tutto il tempo, tra un trangugiamento di crauti e l´altro, una lista di toponimi ungheresi, polacchi e cechi per dimostrare come a tali nomi corrispondano determinati sistemi economici. Di fronte a lui, Sir Pilade. Ho provato tutta sera ad immaginarmelo corrispondere al suo triplice e vero nome, H.G.S., ma niente. Avrei voluto versargli del vino sui baffi per vedere se reagiva come il personaggio de “La Spada nella Roccia”, ma mi sono limitata ad ascoltare quanto aveva da dire sulle sparate berlusconiane di ultimo conio.

Poi c´era il triumvirato slavo, con rappresentanti dalla Russia, dalla Bulgaria e dalla Slovacchia, una punta di Estremo Oriente e la nutrita compagine teutone, ognuna tuttavia fiera portatrice di un campanilismo più o meno belligerante. Il grande H. ha buttato sul tavolo lo spinoso problema della discriminazione da boutique che lo affligge in svariate parti del globo, dove per avere abbastanza centimetri di stoffa in senso verticale, gli tocca sempre finire nelle taglie XXL che (ma solo per ora, direi) non riempie ancora in senso tridimensionale.

In sottofondo al nostro chiacchiericcio, via via più scomposto con il ticchettare della lancetta, il martellare frenetico proveniente dalla cucina, perché la Wiener Schnitzel va servita sottile, al diavolo l´inquinamento acustico. Nella stanza a fianco, per caso ritroviamo la segretaria, che in tutto candore si lamenta del suo blind date e svicola da noi ad ogni pausa sigaretta (per fortuna non è uno di quei pub ad affumicamento consentito). In Italia avremmo tutti canticchiato la sigla di Carramba che Sorpresa, qui nessuno si stupisce più di tanto, del resto internet è uno degli altri antidoti alla resilienza sociale particolarmente pervicace e diffusa.

Ora, sulla definizione di asocialità si può discutere, chiaro. Non vorrei addentrarmi in pericolosi tentativi sociologici, ma solo ribadire una conclusione molto empirica: i crucchi sono ostici ai primi incontri. Sono gentili, ti danno una mano se ti si sgonfia la bici, sono molto informativi circa orari dei treni e reperibilità di bibliografia e se non vengono al lavoro non han problemi a specificarti i dettagli della loro gastroenterite. Ma restano conquiste per spiriti impavidi, serve una pianificazione a lungo termine, un accerchiamento paziente senza blitz troppo diretti, fatto di inviti a casa (meglio se a base di tiramisu e/o lasagne), sessioni di cucina, (s)montaggio mobili, visite a musei o attività sportive collettive. Insomma, per entrare nella lista di amici serve un minimo di sforzo, perché l´alzare il gomito aiuta, ma non basta, serve guadagnarsi un posto nel loro Zeitplan con azioni concrete, miranti ad un fine.

Spossata dal ritmo alcolico, ho concluso la serata avventandomi sull'unica cosa commestibile rimasta in casa. Si trattava, ahimè, di un obolo ottenuto da una delle sessioni di cucina casalinga di cui sopra, rispondente alla sinistra descrizione di “baguette preconfezionata con burro alle erbe”. Per digerirlo, come ultima ordinazione al pub, avevo preventivamente pensato di bermi della “Leistungswasser”. Ebbene, ho quindi chiesto un´acqua “da prestazione”, complice una sibillina S di troppo, pronunciata per insondabili motivi. Ora, dover digerire quella baguette è certo una prestazione, ma quello che volevo era, tuttavia, la disdicevole “Leitungwasser” (acqua del rubinetto), con gran basimento degli astanti. Sir Pilade non ha mancato di rammentarmi che qui sono “unter Hunden”, fra cani, che a quanto pare nella ciotola lappano birra.





giovedì 17 gennaio 2013

Schegge da Halle


A Berlino bastava una pedalata per essere al di qua o al di lá del Muro. Halle era (ed è) tutta ad Est, ma preferisce ignorare il suo recente passato di centro dell´industria chimica pesante: ne lascia il ricordo ai tetri Plattenbauem che si rincorrono nei quartieri periferici, dove neonazi e (pochi) stranieri si contendono la scena. Preferisce fregiarsi di una delle università piú antiche di Germania, crogiolarsi nella sua piazza del mercato dove troneggiano la statua di Händel e la torre col complesso campanario piú antico d´Europa.
Ed è cosí che mi ritrovo alla scrivania del Max Planck Institut per la ricerca antropologica, storica ed archeologica, punto d´approdo di studiosi e ricercatori di mezza Europa, che qui vengono richiamati da un ricco patrimonio di "cultura materiale" preistorica e medievale, e da una solida tradizione di studi nella disciplina.

Insomma: a fare i pendolari tra universitá, centri di ricerca e le loro appendici, ci sarebbe da ridire solo del clima implacabile, che registra sempre i record nevosi della Repubblica Federale.
Certo ogni ambiente di ricerca è un po´un involucro protettivo che attutisce l´eco del mondo esterno: per fortuna le incombenze della vita pratica impongono di montare i mobili Ikea, allacciarsi alla corrente, fare la spesa, visitare l´anagrafe. 

Appena messe le grinfie sulle chiavi della nuova casetta, mi sono precipitata a procurarmi l´Anmeldung, quel pezzo di carta che è la chiave a tutti i servizi cittadini. La solerte, spaziosa funzionaria ha suggellato il mio diventare Halunke. Perché a dispetto delle dimensioni modeste, qui ci sono gli Halloren, cioè chi vanta radici ancestrali nella cittá, i discendenti di chi estraeva il sale, oro bianco di queste parti, poi gli Hallenser, ovvero i borghesi venuti in cittá a far fortuna sulle spalle dei primi, e infine quelli come me. Tanti Hallunke sono studenti o accademici, e fra gli illustri Hallunke la cittá vanta il filosofo Wolff,  il giurista Thomasius e  il teologo Francke.

Con il mio bravo documento ho ottenuto anche un inaspettato omaggio: un´entrata gratis a due per un concerto classico, una piece teatrale od un´opera. Nell´immaginario collettivo teutone, sächsisch ist nicht sexy (ma ci sarebbe da disquisire se esiste anche solo un accento tedesco orecchiabile) e qui si è sperduti nella pampa. Ma stretto tra il fiume Saale e il borgo di Giebiechenstein, il centro cittadino offre perle inaspettate a chi ha la pazienza di inerpicarsi tra salite, strade sconnesse, buche traditrici. Certo sono perle di provincia, e a chi venga da Berlino dove la sera i piú puntuali cominciano ad uscire verso le 22.00, la cittá non puó che sembrare un sonnacchioso ibrido di mostri socialisti e antiche glorie settecentesche. 


Anche chi volesse ammirare la sinistra maschera funeraria di Lutero dovrebbe adattarsi agli orari del Duomo cittadino, che solo gelosamente permette l´entrata. Ad Halle e dintorni di Lutero e i suoi tiri mancini al papa van fieri, e qui l´Università lo ricorda nel nome: anzi nel nome ufficiale (Martin Luther Universität Halle Wittenberg) compare la famosa Wittenberg, forse una delle porte piú menzionate nei libri di storia.
Sulla porta di casa mia dubito si potrebbero affiggere tesi: ho giá avuto un bonario richiamo da parte dell´amministratore per aver incollato il mio nome a citofono e cassetta della posta in fretta e furia, senz´attendere che fosse lui a forgiare una precisa etichetta. I muri domestici, invece, sono cosí spessi che nemmeno il segnale ADSL riesci a scalfirli, e ovviamente la lavatrice troneggia in cucina e non in bagno, come da prassi teutone.


Una preliminare ricognizione delle offerte gastronomiche punta tutto ai vicini ex sovietici: ristoranti cechi, specialitá ungheresi e baracchini polacchi sono comuni come le praline ripiene di qualunque cosa (cocco, Guinness, arancia, semi di papaverp) che si vantano tra i prodotti tipici della cittá. Leitmotiv, manco a dirlo: suinocrazia declinata in tutte le possibili variazioni sul tema, con predilezione del salsicciforme. Ma si sa che noi italiani arriviamo dappertutto, come mi conferma il fitto vocio siculo che rimbalza nel freddo fuori il “Da Luca” o l´accento romano dei camerieri del “Da Salvatore”. 


A 20 minuti di treno strizza l´occhio Lipsia, sempre piú osannata come la nuova Berlino, oasi di artisti e startupper squattrinati, e poco piú in lá Jena, Gottinga, Magdeburgo e tutta una seria di cittadine della cosiddetta “Mitteldeutschland”, che si stiracchia tra Turingia e Sassonia, tra un wurst e un cetriolo sottaceto. 

Allettanti premesse per non farmi narcotizzare dalle lusinghe di giornate spese fra conferenze, ricerca e seminari. Stamattina mi sono svegliata con una presentazione sulla tradizione poetica kirghiza, mentre mi chiedevo ossessivamente se avevo spento la macchinetta del caffè, preso il kit di sopravvivenza del ciclista a -8 (e su strade ostinatamente lastricate e non asfaltate, probabilmente da un burlone ubriaco) e se avevo ancora pasta in dispensa. 

Al netto della mia inarrivabile maestria nel perdere tempo e spiaggiarmi in (in)attivitá assolutamente inutili, queste prime due settimane da dottoranda possono solo dirsi positive. Dopo la fuga dall´ambiente accademico patrio e un anno da colletto bianco in una cittá come Berlino, sirena il cui canto continua a stregarmi, ho trovato un lido laborioso, colleghi variegati, insomma una chance. Siamo in 12 dottorandi: 4 storici, 4 archeologi, 4 antropologi, ognuno col suo fil rouge di ricerca, ognuno convinto di aver qualcosa da dire e da dimostrare, almeno quando é in giornata buona. C´è S., lo svevo che sembra il fratello di Pocahontas che partirá per una ricerca sul campo in Uzbekistan con la moglie croata e il figlio di un anno; E. l´americana pentita che mentre lavorava in un campo profughi in Palestina, si è innamorata di R. e lo ha quasi rapito per portarlo fin qui; L. la minuscola hongkongina dall´immenso valore sul mercato matrimoniale cinese, che peró lei vuole rifuggire; H. che ha i parametri invertiti rispetto a L. e ha il pallino delle tombe del III millennio a.C. Poi bé, ci sono io, quel tocco di Mare Nostrum che fluttua nel Mare Magnum del "che fare?" (senza alcun dotto riferimento zarista, ahime) e deve meritarsi la chance di cui sopra.


Poco fa, per distrarmi in modo alternativo, ho curiosato negli armadi del mio ufficio: ci ho trovato un libro in vietnamita, appunti in russo e un misterioso set di mazze da polo. Magari dopoil disgelo... Insomma, mondi paralleli: quello ovattato e autonomo dell´edificio tardo settecentesco e dei suoi gangli, discreti ma alacri, sparsi per la cittá, eppur autoreferenziali, e quello della Halle vera, fatta per viverci e non solo per studiarci, con la sua periferia inguardabile e i cognomi che tradiscono un´ereditá e uno slancio ancora vivissimi con i vicini dell´Est. Del resto, anche qui in Istituto non si contano i figli- seppur imparati- di Grande Madre Russia, e fra i centri di ricerca piú prestigiosi si conta quello di antropologia per la Siberia e quello per la Storia della Polonia.

Solo qualche sparuto kebab gestito perlopiú da vietnamiti che servono anche cucina panasiatica e pizza,le scarlatte filiali della Sparkasse e il flusso senza sosta dei ragazzi che col car sharing fanno la spola con Berlino, mi ricorda che la capitale è, in fondo, a meno di due ore di distanza.
Ci continuiamo a re-incrociare Berlino, la mia ancora ancora non vuole salpare dai tuoi sporchi vicoli e dalle tue grandiose Allee, dal puzzle dei tuoi abitanti e dalle contraddizioni delle tue lusinghe. Ma, in fondo, mi sento una privilegiata, una di quei tanti studenti che, fossero rimasti a casa loro, avrebbero avuto timore reverenziale a bussare alle porte dei loro professori e qui ci discutono per ore intorno una birra.  Dunque, a noi due, Halle: non sará certo l´accento piu dileggiato di Teutonia a impedirmi di provare a ca(r)pirti, e spero che non mi contagi quella malaise da anacoreta d´alto bordo di chi pensa che sguazzare solo fra sudate carte sia stigmate di elezione e inarrivabile virtú.


giovedì 10 gennaio 2013

Thoughts from the pampa

some call it the pampa, this corner of former DDR which (undeserved?) luck gently blessed and prevented from becoming yet another piece of tabula rasa of WW II.
i call it pampa what is going on in my supposed brain right now. thoughts are cramming my mind and jostling to impose me action, all resulting into a prolonged numbness which leaves me exhausted even if i accomplish nothing.
i stand in front of a series of question marks and do not know which way to unfold them.
i feel the deadly attraction of what i think it´s called education- or culture- and any time i dare to dip my insecure hand into it, the monstrous size of its holiness pushes me back. i bounce back to my pampa and bang my head against reality, which is made of hour, minute and  even second hands unflappably ticking on the silence from which i try to scream.
faces around me look to educated, too slick, too cunning, too...faces.
my most sought after desire is so simple and childish i do not dare to confess myself this is really what i want. i let time drizzle away and break it down into smaller unities to try and arrange my void around it.
after all we only measure time when we are aware of it and cannot be overwhelmed by action.
i glance at my mental pampa and sigh, yet again, at the echo of my useless thoughts.

mercoledì 2 gennaio 2013

Capodanno in famiglia


Capodanno quieto quest’anno. Di mezzo c’è un trasloco per il quale ho già ipotecato svariati anni di girone fra gli iracondi a furia di imprecare contro le altre sfere, e che mi ha impedito anche solo di fingere di cercare un’alternativa più vida loca a quella che mi è stata proposta. Ergo, il salto dell’anno (come dicono qui, Rutsch, che sa tanto di onomatopeico apprezzamento dello champagne) l’ho compiuto a Hennstedt, minuscolo paesino che si tiene con le unghie all’ultimo lembo di Teteschia prima dell’altera Danimarca. 

Con  me c’erano tre dei quattro fratelli W. La biodiversità come la melanina è stata parca con loro: sono tutti variazione sul tema. Tratti comuni: comoda fronte spaziosa, occhioni da cerbiatto ma color blu elettrico, labbra morbide senza bisogno di botulino, classico naso nordico minuto e senz’ombra di pretese dantesche. Il nr 1 è il più mingherlino, ma compensa con una tonsura naturale che mette in risalto la fronte; il numero 2 è quello che si è preso più centimetri e, per mia fortuna, riccioli, il nr 3 potrebbe fare da matrioska che contiene gli altri. A completare il bucolico quadretto, i teutoni genitori, cane ottuagenario, gatto in sovrappeso e cervi che ciondolano in giardino, l’ultimo lembo di civiltà prima del bosco e del mare del Nord che mugghia in sottofondo.


In attesa del brindisi d’ordinanza, nr 1 dà un colpo notevole alle mie velleità di angelo del focolare, dimostrandosi formidabile quanto incallito all’uncinetto. Solo blandamente gli improperi che ritmano i fallimenti di nr 3 riescono a rincuorarmi. Mi tocca ripiegare sui natalizi Plätzchen (biscottini speziati e pan di zenzero) per chetare la coscienza. Eventualmente con una sortita sul torrone sardo che ho trafugato dai cesti natalizi del ragionier Franchina, cenno di Mediterraneo in quest’impervia landa nordica. 
Del resto, queste 48h mi sembrano una pacata ode all’incontro tra un ipotetico “nord” ed un ipotetico “sud”, concetti sempre mutevoli e relativi. Così le lenticchie sopravvissute al check in, anziché con la classica polenta le ho trangugiate con gli spätzle fatti in casa secondo ricetta sveva tramandata da generazioni. A suggello della mia iniziazione ai segreti culinari teutoni, mi è stato regalato “Le ricette della nonna” con tanto di titolo in inquietanti caratteri gotici. Per ora è finito in uno dei sacchi del trasloco, insieme ai tanti, soliti, triti buoni propositi per il 2013. Io ho ricambiato traducendo a spanne la ricetta del classico risotto alla milanese, rinunciando per bontà d’animo di stagione a ricordare che i bergamaschi son ben altro che i meneghini. 


La famiglia W. viene da uno dei mille paesini in-ingen sulle colline fuori Stoccarda, famose per il vino e l’accento impossibile per cui tutte le “s” diventano “sc”. Ed è giusto fresca di 2013 la dichiarazione del sindaco di Prenzlauerberg secondo cui gli svevi di Berlino continuano ad essere provinciali e un po’ bigotti, a dispetto del dinamico cosmopolitismo della capitale. Insomma, a Berlino i ricchi campagnoli del Sud non van proprio giù. Per tutta risposta, dai W. a metà pomeriggio ci si sintonizza sulla Sud-West Rundschau per il settimanale appuntamento con “Laible und Frisch”, che racconta di novelli Giulietta e Romeo, lui figlio di un panettiere svevo tradizionale, che impasta Brezeln notte e giorno e trova giusto il tempo di fuggire dalla sua lei, figlia di un imprenditore amburghese che ha aperto in paese una panettiera industriale. Io rido per osmosi, complice una comprensione sollo abbozzata del dialetto pieno di dimunitivi in "-le" anziché in "-chen", con le vocali pronunciate a caso, "net" al posto di "nicht" e gli "ich" che diventano "i" per comodità.

Poco prima dell’ultima cena del 2012, che a proposito di ispirazioni meridionali consta di fondue svizzera, quel pugno di centimetri quadri sulla cartina che dividono dove sono nata io da dove sono nati i W., si concede anche ad una tv nazionale di farci compagnia. Con cordiale pazienza, mi si spiega che non c’è Capodanno senza i 18 minuti in bianco e nero di “Dinner for one”, e ne trovo conferma sulle interviste del giornale di provincia, che fra il salvataggio di una pecorella smarrita (e non è una metafora biblica) e i problemi di obesità di una tartaruga beniamina locale, ha intervistato cittadini a caso circa i loro piani per l’Ultimo (che qui è omonimo del felino di casa, “Silvester”). La commedia inglese risale agli anni ’60, e ruota tutto intorno al 90° compleanno della nobile Sophie, che essendo sopravvissuta ai suoi cari amici, impone al maggiordomo James di bere e brindare continuamente al loro posto, con le ovvie conseguenze del caso. Il motto pare calzare anche con i riti della famiglia W: “Same procedure as every year”.

Sorvolando sugli stappamenti di champagne vari e il tripudio di fuochi d’artificio, che sembrano essere universali, uno dei momenti clou del Capodanno teutone tradizionale è quello dello scioglimento del piombo. Eh sì, perché anche a questi latitudini un po’ di superstizione non guasta, così in mancanza di fondi di caffè si fondono cubetti di piombo con le candele. Si lasciano poi raffreddare in una bacinella riempita d’acqua e le forme suggeriscono quel che sarà nell’anno che incombe. Stando ad internet, la tecnica (“molibdomanzia”) era già dei buoni vecchi greci (e te pareva?), ma ormai sopravvive solo presso gli eredi dei barbari. La signora W. fortunatamente non trova il libercolo che, a mo’ di Smorfia, ci consentirebbe una lettura scientifica del nostro imminente futuro, così per un po’ ognuno intravede nel piombo che si solidifica quel che vuole. 

A mezzanotte, poi, un’altra chicca, stavolta strettamente della Germania del nord: il Rummelpott. I bambini del quartiere bussano di porta in porta battendo su una specie di tamburello che, se confezionato come tradizione comanda, sarebbe di vescica di maiale. Non controllo, piuttosto osservo i bambini incassare la loro quota di dolciumi e andarsene beati mentre canticchiano rime in plattdeutsch, il dialetto locale. 

Varcata la soglia del 2013, sono solo i giochi di società che ci impediscono di cedere a Morfeo, fin troppo alacremente coadiuvato da Schnapps vari. Riscopro l’antico spirito guerriero battendomi a “Stadt, Land, Fluss”, in sostanza il classico giochino da ore buche a scuola, dove si scelgono le categorie e si estrae una lettera. Qui hanno il vantaggio che se si pesca la “O” alla voce “nazioni” oltre all’Oman si può scrivere anche Ősterreich. Dopo aver dibattuto se le Faer Oer sono o meno da considerarsi valide, si passa ad una versione famigliare di “Uno”, con regole sfalsate, e poi ad un altro di carte di cui capisco il meccanismo quando ormai solo io e i 3 W siamo ancora in piedi, provati e con le lingue impastate. 

Il primo gennaio, un pasto a base di crauti, patate e barbabietola mi rammenta (casomai me lo fossi scordata) dove sono, così come il funzionamento (impeccabile) dei treni che mi riportano a quella che, per ancora due giorni, è casa mia. Allo sbiascichio brandeburghese del coinquilino si mescolano gli auguri in francese di N., il ragazzo di nr 4, unica figlia dei W, e al campanello sulla Greifswalder un seminarista mi annuncia un sondaggio fra gli italiani di Berlino, dal titolo "vale ancora la pena credere in Dio?"

Anche il 2013, si spera, sarà all'insegna di un continuo ondeggiare, che sia verso nord, sud, est o ovest, poco importa.