venerdì 23 novembre 2012

Auf nach Halle

Cambiare. Pare che sia il motto di quest’ultimo scorcio di 2012, che già proprio monotono e prevedibile non è (per fortuna) stato.

Weekend a Bruxelles per una rimpatriata col mio harem di more: la dieta dei trappisti ha dato i suoi frutti, e al rientro a Berlino ero mezza influenzata. La sera dopo mi sono improvvisata regina dei fornelli, ma ho giocato facile: ero invitata a cena (ma cucinavo io, ‘sti barbarici crucchi) dal più vecchio della nidiata W., potenziale cognato. E, si sa, i rapporti cognatizi si rinsaldano intorno a un bel piatto di casoncelli trafugati in sacchetti di plastica sottovuoto e, per chi è vegetariano, con una parmigiana di melanzane suggerita da Sonia di Giallo Zafferano. Sgattaiolati in cucina i vari crucchi presenti (B. ha 3 fratelli e una sorella) io e l’altro latino presente, il gallico moroso della sorella, ci ritroviamo a porci l’eterno quesito sui codici di socialità teutoni. Alla fine saranno Johnny Halliday (alias “ils veulent se moquer de moi, c’est Johnny quoi!”) e MoDo, italianissimo cantautore di pregio cui si deve « Eins, Zwei, Polizei » a reggere le redini della serata.

Mercoledì, Halle. Non che prima sapessi esattamente posizionarla sulla cartina. Pensavo ad una gita a spese del Max Planck Institut, cui per un suggerimento dell’ultimo minuto avevo inviato la candidatura per un dottorato di ricerca in storia. Senza motivazione, era il modo per rompere il ghiaccio. Munita di rotolo di cartacucina per le rinoemergenze, mi infilo in treno e via, alla volta della Sassonia Anhalt, ex DDR. Appena fuori Berlino, boschi e fiumiciattoli, interrotti solo dai solerti annunci del capotreno che scandisce le fermate e informa sui tempi di percorrenza.
Questa è "Halle", anche se Google come primo risultato dà l'attrice Halle Berry

Giunta ad Halle, dal dépliant che sgraffigno in stazione, apprendo che qui c’è la più antica fabbrica di cioccolato in Europa, e un’ora dopo inzaino gaudente uno stock di praline locali dai gusti più impensabili: limoncello, birra nera, scorze d’arancia e marzapane.
Zompetto per il centro: carino con le sue guglie e i viottoli. Tralascio di inseguire la maschera funeraria di Lutero, anche se fin da metà tragitto del treno, i nomi delle fermate mi ricordano che sono in pieno feudo luterano. Ho poco tempo per fare la turista: cerco di capire dove sta il Max Planck e di trovare il tram corrispondente. Purtroppo non è quello il cui capolinea recita “Frohe Zukunft” (futuro felice), bensì un più sinistramente padanofono “Trotha”, ma spero non sia di cattivo auspicio. Che poi, cosa mi aspetto? Forse è il mite vecchietto che mi ha indicato la strada ad avermi fuorviato, dicendomi che "incrocerà le dita per me".

10 minuti a piedi e sono davanti all’edificio che mi attende. Niente grandiosità, potrebbe essere la villa dell’impresario di pompe funebri del mio paese, solo senza pacchiane statue pseudogreche, ma con maschere africane alle pareti. E sì, perché questo è l’istituto per la ricerca storica ed etnologica. Una puntuale segretaria mi fa subito compilare il modulo per il rimborso delle spese di viaggio e fotocopia tutti i biglietti dei mezzi che ho usato, poi una minuscola mezzo tedesca mi preleva e mi porta nella sala dove avverrà il mio colloquio.

Nei pochi minuti che mi lasciano per togliere la felpa a righe smunta e infilare una giacca finto profescional, scorgo solo titoli in ungherese e polacco attorno a me: scoprirò poi, quando uno dei professori mi si rivolgerà in polacco (chiedendomi perché diamine l’ho studiato), che molti qui dentro si occupano di storia dei vicini di casa orientali.

Dunque, intorno a me sui divanetti stanno la nanetta, il professor P. che parla inglese con inconfutabile accento teutonico, il professor M. (lo stesso cognome dello joghurt che commette atti impuri con il sapore) che sfodera un impeccabile italiano, e il prof. H., gallese che potrebbe benissimo essere zio di uno degli Hobbit del Signore degli Anelli. (E gallese, in tedesco, è omofono di "valigia" in bergamasco, come credo in qualunque dialetto a nord del Po).

Non avevo capito nulla. Il colloquio è serio, molto serio. Mi ritrovo, dopo un anno e mezzo dal mio congedo dall’Unimi, a riesumare la suprema, immortale arte del rigirare la frittata: mi si pongono domande circostanziate, molto pertinenti. Questi il progetto di ricerca l’hanno letto eccome, il prof. P. ha tutta una serie di note e sottolineature a lato e non riesco a decifrarne l’espressione da dietro gli occhiali perfettamente tondi e con montatura di moda probabilmente nel primo dopoguerra.

Finito il colloquio, mi chiedono di attendere e si ritirano per confabulare. Mi dicono che vorrebbero decidere subito. Passeggio avanti e indietro compitando impossibili titoli ungheresi e cercando di rispolverare il mio misero polacco. Tasteggio un sms sul cellulare, tampono le solite rinoemergenze e spero che la febbre che mi sento addosso non sia solo da termometro al mercurio.

Le ufficializziamo che, se accetta, da settimana prossima è dottoranda al Max Planck Institut e alla Luther Universität di Wittenberg”. Eccolo, Lutero che torna. Mi toccherà andare in pellegrinaggio alla porta dove affisse quelle tesi che cambiarono l’Europa.


Cambiare, appunto. La sera, in stazione, sono talmente confusa che oso mangiare la prima Kartoffelsalat della mia carriera, e riesco perfino a trovarla buona. Il giorno dopo, nella mail, mi attende un contratto. Quello stesso contratto, ora, giace sulla mia scrivania. Non ancora firmato. Davanti a me c’è anche la lavagnetta con ancora scritto il terribile quesito del coinquilino “dov’è il rotolo che avevo appena messo in cucina?”. Temo dovrò fornirgli prova dell’infausto uso che ne ho fatto. Ma sono talmente di buonumore, che gliene compro una confezione-scorta.

Per settimana prossima- sia lodato il Couch Surfing- ho trovato un ragazzo che mi ospita sul suo divano. Ho già fissato un paio di appuntamenti per vedere di trovar casa: per fortuna la pazza impennata dei prezzi che ha piagato Berlino non sembra aver ancora raggiunto la pur vicina Halle. Con 280 E dovrei potermi permettere addirittura un monolocale (spese comprese) e per la prima volta, chissà, dire “casa mia”. Farò la pendolare fino a Natale, poi dovrei riuscire con un solo viaggio in macchina a portare le mie quattro cose “là”, se avrò un “là” dove stare.

Intanto ho dovuto: direi byebye al lavoro part-time per il quale mi avevano “assunto” il giorno prima, richiedere il rimborso del corso di russo a cui mi ero iscritta per gennaio e rifissare tutte le lezioni di italiano per il weekend. Ma non ho ancora firmato. Wie lustig. Non credo troverò una valida scusa per non apporre il mio autografo sotto le 4 pagine teutonofone. Ma in qualche modo, il mio cervello si trastulla illudendosi di riflettere. Del resto, il reparto segherie mentali è l'unico che non ha subito crisi e flessioni.

Ho appena chiamato Cathrine, un’emerita sconosciuta che cerca compagni di viaggio per lunedì. Ovviamente, i treni crucchi sono una fucilata economica. Il bus per 35 E farebbe avanti e indietro, ma infilandomi in macchina con qualcuno faccio lo stesso tragitto Berlino-Halle-Berlino per 20E. E, se mi va di lusso, chi guida e chi viaggia con me è pure studente ad Halle. Studia lì anche D., il couch surfer presso cui fisserò il mio sacco a pelo per settimana prossima. Anche N., che sempre tramite Couch Surfing mi sta girando gli annunci della bacheca universitaria (di Halle, cui io comunque non potrei accedere, anche se mi attivassero seduta stante un account). Non ci si aspetta che possa essere attiva da subito, ma in qualche modo "lo si auspica". Ma la mancia non la danno, così meglio cominciare subito e provare a vedere se mi ricordo come è fatto un libro.

Il Mitfahrgelegenheit, così come la Kartoffelsalata, sono un inedito per me. Ma, in qualche modo, sento che potrebbe tutto andare liscio.
O, come si canticchiava io e il gallico per istigare alla socialità (anche solo per reazione) i commensali, gut gut super gut, alles super gut. Sperar non nuoce, specie in questo clima già pre-natalizio.
Chissà che il prossimo post lo digiti dalle rive del fiume Saale (perchè di Halle ce ne sono svariate in giro per la Germania, l'Europa e perfino il mondo).
Gut, gut, super gut, alles super gut.

mercoledì 14 novembre 2012

DAF: Deutsch als...?

Dopo 1 anno e mezzo si torna fra i banchi per un esame: non è facile dopo un anno di colletto (o collare di forza?) bianco, e la tensione mi consuma. Devo sottopormi al test DAF, il test che certifica una conoscenza della lingua tedesca adeguata all’ambiente accademico.

Al solito: si ascolta, si legge, si scrive e si parla. Come da prassi, in aula solo penna, documento d’identità e una bottiglietta d’acqua, uno sguardo all’orologio e via. Io mi sono portata anche una dose cospicua di pocket coffee, a fine giornata almeno potrò dire che la tachicardia è solo dovuta ad eccesso di caffeina e non al mancato aplomb in sede d’esame. Come me, altre migliaia di persone intorno al mondo stanno facendo lo stesso test, nelle stesse ore, al netto del fuso orario: il DAF è la chiave per poter studiare in Germania, dove le tasse universitarie sono molto basse o, addirittura, inesistenti.
Ma, come ogni assembramento di esseri umani, anche questa splendida mattinata di ghiaccio e sole mi permette di esercitare gli occhi in un po’ di human watching spicciolo, sguazzando negli stereotipi e nei luoghi comuni che mi piacciono tanto.
Il mio numero d’iscrizione mi assegna ad un’aula dove noto solo occhi a mandarla: vicino a me scorgo un P.Lee che il passaporto mi suggerisce essere coreano. La lista include cinesi, giapponesi, thailandesi. A salvare l’onore dei caucasici, quando ormai stavo per perdere ogni speranza, si palesa un ingombrante danese, ovviamente di cognome fa Larsen.  Ogni volta che alzo la testa dai fogli per sgranchire i pensieri, l’unico altro capo che incontro sulla mia linea di vista è la sua, che sovrasta l’esercito di calotte craniche nere e che non si ergono sopra il metro e sessanta.
Dalla schiera degli asiatici (non riesco proprio a distinguerli, potrebbero avere dai 15 ai 42 anni) fa capolino una certa T. Pan che, infrangendo le regole, necessita dei servizi dopo l’inizio della prova. L’esaminatrice bavarese tentenna: telefona ad una collega che scorterà la debole vescica in bagno. Il mio compagno di melanina freme nella sua hipsteritudine: “Scusi, non è problema nostro se lei non ha pensato prima ad andare in bagno”. Solo il giuramento di una protocollazione del fattaccio cheta lo scandinavo sdegno, e la prova prosegue, fra sospiri e fruscii di fogli.
Ogni tanto, in mancanza di ispirazione personale, mi verrebbe da sbirciare quanto scrive  P.Lee, ma è talmente raggomitolato sul banco, scrive talmente minuscolo, che sarebbe solo fatica sprecata. Dietro di me, una thailandese il cui cognome occupa due righe si è tolta le scarpe, lo capisco dopo un certo obnubilamento mentale, che combatto a suon di pocket coffee perché le finestre non si possono aprire. Quando mi incaglio su un ostacolo grammaticale troppo ostico, indugio sull’unica distrazione visiva che mi è concessa: un’enorme cartina della Repubblica Federale, che troneggia su tre quarti della parete. Nel mio campo visivo c’è, guarda caso, il Baden Wurttemberg e così il mio screen saver mentale sono Memmingen, Reutlingen, Tubingen e tutta la ridda di città e paesucci che così finiscono.
ngen, ‘ngen, ‘ngen è il nuovo zen.
A metà esame abbiamo 3 quarti d’ora d’aria, se così si possono chiamare. Possiamo pascolare tra le aule, il corridoio e i bagni, guai a chi armeggia con cellulari, per non parlare di voler uscire dall’edificio. Il buon Larsen si avvinghia alla macchinetta del caffè e ne prosciuga qualunque bevanda disponibile (calcolando che: latte macchiato, cappuccino, cioccolata cremosa e milchkaffee sono tutte la stessa, zuccherosa brodaglia). Con buona pace mia, noto che il deflusso dalle altre aule conforta la proporzione demografica ormai imperante: oltre ai soliti asiatici, ci sono indiani e nordafricani. O forse è solo perché, iscrivendomi all’ultimo minuto, l’unico posto disponibile trovato era al Eurasian Institute?
In effetti, alle pareti campeggiano festose foto di scambi culturali algerino-tedeschi, sino-turchi e tutte le possibili varianti intermedie. La AOK (assicurazione sanitaria) ha tappezzato le pareti con cartelloni ammiccanti in arabo (credo) e cinese (credo) con tariffe scontate per gli studenti. I dirimpettai di piano sono l’associazione turca di Berlino, e lasciando ‘ngen per riposare lo sguardo alla finestra, è al canale di Kreuzberg cui rivolgo i miei sospiri di esaminanda.
Nonostante siano solo le 11.00, qualcuno ingurgita profusioni di panini, e c’è chi  osa, addirittura, ingollarsi una lunch box raccattata a qualche untuoso take away. In un angolo ritrovo qualcuno di caucasico: Svetlana sta parlando fitto con Ekaterina, e addirittura poco dopo sento una litania contro l’esame in spagnolo, ma con chiaro accento brasiliano. Mi conforta constatare che non tutti i carioca sfoggiano fisici da Copacabana. Più in là, una minuscola asiatica (mi sbilancerei: thailandese) cerca di impietosire l’inflessibile esaminatrice a lasciarle tempo per trascrivere le risposte sul formulario apposito.
Risoluta a non violare la dieta di soli pocket coffee, butto un occhio in aula: i vari Lee, Pan, Chin sono tutti ancora in classe. Quella senza scarpe dorme, evidentemente a comando, e quasi sembra non respiri. Il mio vicino ha chiuso gli occhi, ma è ritto come un fuso: sospetto che abbia un chip impiantato nelle palpebre e che ora stia ripassando la declinazione degli aggettivi mentre finge un pisolino di riflessione.
Ma il vero momento di breakdown arriva quando siamo tutti a tu per tu con un computer e incuffiati e dobbiamo sostenere l’orale: a tutti sono propinate le stesse domande, e tutti contemporaneamente diamo il nostro meglio. Significa che, ogni volta che ho finito e attendo il beep finale, in sottofondo ho una ridda di blablabla cruccofoni senza R, fatto salvo il solito danese. Sembra un po’ di stare dentro un macchinario per la TAC, bombardati da suoni indistinti e con lo stesso nervosismo. Anche perchè, solo in un esame di crucco poteva esserci come prova (anzi, ben due prove), quella di descrivere un grafico e le sue variazioni.
Alla fine, quando l’esaminatrice pronuncia la fatidica parola “fine”, si sciolgono i ranghi. Anche il mio vicino coreano acquisisce sembianze umane, mentre si ingiacca e si indirizza verso la metro: avrò spento il microchip oculare.
Prima di tornare alle faccende quotidiane, mi sembra d’obbligo tributare omaggio all’eurasiatismo del quartiere, e mi lascio andare alla deriva al mercato turco di Maybachufer dove, probabilmente, nessuno sa cosa sia il test DAF, ma pomodori e arance hanno sapore di casa, così come il baffo che in loop urla “Ein Kilo, ein Euro schöne Dame, ein kilo, ein Euro” e la signora che nel suo trabiccolo impasta torte salate.
Tornando a casa con variopinti sacchetti di spezie, verdure e un pane arabo, dimentico i dolori dell'esame, almeno fino al momento della verità: tra 6 settimane, insieme a tutti gli altri esaminandi del globo di questa tornata, avrò il riscontro.

venerdì 2 novembre 2012

un post del cazzo


Il mio studente L. è violista all’opera: conosce a memoria “Le nozze di Figaro” e, quando arranco sulle scale per andare a lezione da lui, con ancora evidenti i segni del mio flirt toccata e fuga con Morfeo, mi accoglie con “ero ansioso di vederti” e poi infila qualche rima forbita. Poco dopo, però, gli spiego che “augello” è il prosaico “uccello”, e scopro che in romeno (la sua lingua madre), si traduce con “passera”. Al che urge una nota ornitologica e un excursus fra passere e uccelli. Il che mi porta, inesorabilmente, a ricordarmi che avevo promesso all’altra metà del cielo un post ad hoc, dopo la disputatio ficae.
E per non sottrarmi alla par condicio, provo a cimentarmici (volevo proprio usare questa parola cacofonica, oh sì).
Dunque, cosa sia il “cazzo” è abbastanza risaputo. Prima o poi, tutti gli studenti germanofoni cadono sull’uccello (riposa in pace, Mike), cercando di tradurre “Katze” (gatto, che suona “cazze”). Ormai reagisco con aplomb british e correggo in automatico, senza colpo ferire, la distinta 50nne di turno che mi compita tutta concentrata “io amo i catzi e ho un catzo a casa”.
Al solito, sono le mille accezioni accessorie a sfuggire anche agli studenti più diligenti, ed è solo per probo senso del dovere, quindi, che sciacquo i panni non nell’augusto Arno, bensì li inzacchero nelle profane pozzanghere della lingua parlata. Chi mi conosce, ben sa che mai e poi mai mi macchierei di turpiloquio, no?
Innanzitutto, il “cazzo” è espressione quasi complementare a “figa”, che a suo tempo avevo tradotto con il polivalente (ma molto meno saporoso) “krass” teutone. Per cui, ci si avvale dell’ammennicolo maschile per una gamma di reazioni che vanno dalla sorpresa (“C! non ci posso credere, Berlusconi è davvero tornato in politica!”) alla scocciatura (“ma no, c., il treno è di nuovo in ritardo”). La scelta fra l’una o l’altro delle gonadi è assolutamente personale, forse regionale. Dalle mie parti è molto più in voga lei di lui, ma basta spostarsi di 50 km, e nel capoluogo meneghino ci si imbatte quasi solo in “minchie” importate dalla Sicilia, che han finito  per fare come i conigli in Australia ed avere il monopolio dell’esclamazioni locali.
Tuttavia, il “c.” non indica, come logica potrebbe suggerire, un bel ragazzo, così come “f” indica una bella ragazza. Per gli uomini la sineddoche non vale, e si ricorre ad un più impensabile “figo”.
Ma anche l’organo maschile è abbastanza versatile, ad esempio in coppia con “volere” e “dire” e accompagnato dal gesto che ci connota un po’ in tutto il mondo (vedi sotto ), è una classica espressione che non si può esattamente tradurre con “Was   für einen Schwanz willst /redest Du”.

Quando si aggettiva, il “c.” oscilla fra qualcosa di positivo (“cazzuto” è qualcuno, pensa un po’, “con le palle”, intrepido e sicuro di sé) e, al contrario, qualcosa di scadente (tutto ciò che è “del cazzo” non ha alcuna afferenza pubica, bensì è semplicemente fastidioso, inutile, imbarazzante. Possono esserci “situazioni del c”, ad esempio). I più fini linguisti, poi, scomodano i “controcazzi” per designare qualcosa o qualcuno di veramente superlativo, per cui il semplice organo risulterebbe troppo dozzinale.
Non mi diletto di psicosomatologia, ma parrebbe che alle nostre latitudini, l’organo sia coinvolto nel pathos, visto che ci si “incazza” (arrabbia), ma anche ci si “scazza”, ovvero ci si annoia o irrita. Chi è “scazzato” non è necessariamente un eunuco (come suggerirebbe la S “privativa”), semplicemente esprime in maniera un po’ meno dandy il male di vivere che altre, più auliche voci, definivano come “spleen”. Probabilmente, lo scazzato in questione sarà poco socievole e auspicherà che chi gli sta intorno si faccia un po’ “i c. suoi”, ovvero badi alle proprie faccende, senza interferire nella sua sfera privata che, si sa, metaforicamente coincide con lo spazio occupato dai gioielli di famiglia.
L’intruso di turno potrebbe subire un bel “cazziatone”, ovvero una ramanzina dai toni piuttosto accesi. E lì, potrebbero davvero essere cazzi. Ora, si noti la bellezza intrinseca del semplice enunciato minimo di scolastica memoria “sono cazzi”. Potrebbe sembrare una semplice frase da manuale di lingua per principianti, ed invece serve un fine conoscitore dell’italica cultura per sviscerarne il recondito significato: quando si intravedono gonadi maschili all’orizzonte, non sono i California Dream Men in libera uscita, piuttosto guai in arrivo.
Se poi tali organi sono pure “amari”, allora altro che il gaio motivetto di Pupo: c’è da correre presto ai ripari. (Forse L. apprezzerebbe questa rima così naive). Del resto, con la semplice particella "non", mi vien da aggiungere che "non ci sono cazzi"(o, essendo a Berlino, ce ne sono parecchi, ma tendenzialmente apprezzano i loro simili): certe espressioni sono proprio intraducibili, specie per i corretti tedeschi.
Direi che la mia quota giornaliera di cazzeggio si è esaurita, dopo aver vergato cotali sublimi righe. Non mi resta che tornare ai cazzi e mazzi quotidiani, fiera di aver contribuito alla promozione dell’idioma patrio, seppur sempre così, un po’ alla cazzo (speriamo, almeno, non proprio “di cane”, visto che tutto ciò che è canino tende ad essere dispregiativo. Del resto, se qualcuno mi rimproverasse di trattare temi troppo raffinati, risponderei che solo "col c." mi darei a qualcosa di più volgarmente ludico).