lunedì 13 ottobre 2014

La Cina é vicina



We are qi mates” R. ripete sorridendo mentre sorbisce una zuppa ai semi di fior di loto. Io cerco di dissimulare una certa perplessitá: la zuppa è gelatinosa e di un gusto zuccherino che le mie papille non riescono a decifrare ed apprezzare.

Il “qi” per me era, fino a poco tempo fa, l´acronimo di "quoziente intellettiv"o, adesso so che  ha a che fare con quella che i tedeschi- credo- chiamerebbero l´Austrahlung: una specie di aurea che ognuno di noi ha,che traspare dai gesti, dalle parole, dalle espressioni. R. disquisisce animatamente con D. e S. per descrivere accuratamente il mio qi, io sorrido sperando di lasciar trapelare la parte migliore della mia "energia vitale".

Siamo a cena tutti insieme, tre cinesi che vengono da cittá distanti 3.000 km fra loro, un tedesco di genitori turchi, una messicana e una italiana che parlano cinese e me. Io non capisco una parola, e proprio per questo quanto mi spiegano che esiste un´espressione per indicare la “linea bianca del chicco di riso” (bai wu), qualcosa dentro di me sorride, di un sorriso profondo che un tempo avrei pensato provenire dall´anima. Forse è il mio qi, quel respiro che fa di me quel che sono, che si allarga di gioia. La comunicazione stasera è ardua: ogni mio senso è all´erta, proteso a cogliere le espressioni dei visi,  una parola fra mille che mi ricorda qualcosa di noto (“Italii” oppure il mio nome), i gesti. Intanto D. e S. esaminano i chicci di riso Carnaroli che non han mai visto prima, mentre R. mi spiega che in antico cinese ben 7 diverse parole traducevano "riso", a secondo dello stadio di cottura. Il mio qi, allora, trova molto appropriato e calzante manifestarsi in "riso", visto che dai noi significa anche ridere, e mostro tutti i miei 31 denti permanenti e quello da latte che rimane.

Non so se il qi possa assumere diversi stati, ma mi piace pensare che un po´sia cristallizzato nelle lacrime involontarie che mi causa l´eccesso di spezie. Non ho idea di quali abbia usato R. per condire il pollo con le noccioline o l´insalata coi funghi “orecchia di maiale”, tantomeno per rendere il tofu, che quando cucino io sa di plastica viscida, una leccornia che ci disputiamo a tavola.

Ogni cinque minuti qualcuno versa della birra e brinda, possibilmente con un piccolo inchino e poi bevendo alla goccia. Spesso mi lasciando il fondo della bottiglia, pare porti ricchezza nonostante il saporaccio. Riesco ad intrufolarmi ogni tanto in qualche discorso, ricorro a tutto il mio repertorio di gestualità e provo a ripetere quello che sento con effetti sempre distorti. Colgo un “nigga is fat” che non può essere tale, ma perlomeno mi ricordo che “nigga” è una specie di “praticamente”, non ha un vero significato e lo si infila spesso mentre si parla, poi mi sembra di udire “pizza” e riesco ad accordarmi per mangiarcene una insieme. Pare che in Cina servano tutt´altra pizza. Del resto le mie fauci triturano con gran gaudio piatti del Sud Est del Paese che non ho mai nemmeno adocchiato nei ristoranti cinesi bazzicati in mezza Europa. 

R., che non è cinese ma della Cina ha fatto una sorta di patria d´adozione e di studio, pazientemente fa da tramite e cosí l´altra R., la mia compagna d´ufficio dello Yunnan.  Come un bambino goffo tento ripetutamente di usare le bacchette, osservando di sottecchi i miei vicini che con ritmo incalzante si spazzolano tocchetti di carne e tofu, ma finisco per spargere cibo tutti intorno e ad avere un indice indolenzito. Sono un po´ sfigata, forse, o “pelo pubico”(diao si), come tradurrebbero loro. Mi rassegno ad usare forchetta e cucchiaio, consolandomi perché forse potrei figurare come comparsa esotica e caricaturale in un video di Jay Chou, idolo rap di cui ascolto in loop un pezzo che fa la parodia della corruzione degli eunuchi alla corte imperiale che fu.

Giá, la Cina che fu, la Cina che é, e soprattutto e sempre di piú, la Cina che sará. Cosa ne so io, storica della mutua, giovane dalle aspirazioni internazionaliste della Cina? Bah, un paio di paragrafi sulla rivolta die Boxeur, un compartimento stagno e stagnante delle mie nozioni targato “Guerre dell´Oppio”  e la faccia di Mao. Quando si rammenta Tien An Men fingo di saperla lunga, ma per me è una definizione presa da Wikipedia o poco piú. Poi tanti titoli di giornale: la Cina mai quanto ora è vicina. Tutti i bar del mio paesello natale e di quelli accanto sono stati rilevati da cinesi, una schiera laboriosa e silenziosa, e ogni volta che torno c´è un negozio di vestiti in piú. Le solite cianfrusaglie cinesi, paccottiglia a poco prezzo, già mi vedo un esercito di operai sfruttati che dorme nel sottosuolo delle nostre cittá, rubando lavoro e immettendo sul mercato merce non conforme ai mille marchi che abbiamo. Intanto R. compra all´ingrosso, qui ad Halle, latte in polvere di produzione tedesca “perché in Cina non ci fidiamo del nostro, la mia famiglia preferisce spendere per la spedizione”.  Intanto la commessa di Max Moda, in provincia di Bergamo, carina e sorridente, cerca di convincermi che la giacca mi sta a pennello, nonostante le loro XL mi strappino sempre spergiuri di mettermi a dieta e ammazzarmi di palestra. 

Nel tema della mia tesi mi imbatto ogni tanto in eruditi olandesi, tedeschi, francesi, inglesi che per la prima volta scoprono la Cina. Non si muovono dal loro studiolo nel Vecchio Continente, se non per un pellegrinaggio culturale a Parigi, Roma e Lipsia, i piú temerari anche a Londra. Il ´600 ha dato il colpo di grazia alle speranze di unità della Respublica Christiana, guarda inconsapevole al ´700 e le sue promesse di Lumi. Grazie alla stampa, gli ugonotti in fuga dalla Francia si reinventano letterati e nelle lettere che scambiano assiduamente con mezza Europa costruiscono la Repubblica delle Lettere, mentre il volgo muore di peste a Napoli o decapita un re in  Inghilterra. Se ne stanno lí, i miei cari eruditi, e dai confini del Creato trapela notizia di documenti tanto antichi da mettere in dubbio i calcoli fatti Bibbia alla mano sull´età del mondo. Montaigne leggendo i resoconti di avventurieri e missionari, scopriva che in Cina non si usavano fazzoletti, e passava per scettico immaginando che, forse, ai Cinesi sarebbe parso strano che in Europa il muco si conservasse gelosamente in preziosi straccetti di seta, magari pure adornati di iniziali.

Io, prodotto della generazione RyanAir, ho a malapena superato i confini del mio piccolo, beneamato angolino di mondo, quella frazione di mappamondo che cerca di unirsi sotto l´egida di una bandiera stellata e ha Stati sedicenti nazionali che si trovano solo zoomando su Google Maps. Sorrido ancora, quando vedo la pubblicità di un ristorante di cucina tipica italiana di Pechino sfoggiare una bionda in dirndl con un boccale di birra e un pretzel in mano. Eppure, beh eppure se chiedessero a me di buttar giú uno slogan per qualcosa di cinesi, potrei solo far lo schizzo di qualcuno con gli occhi a mandorla e un capello a punta che accarezza un panda.

I cinesi, in fondo, non sono poi creature cosí malefiche. E non sono  neanche così simili fra loro. Tutti quelli che incontrato qui, addirittura, sono desiderosi di comunicare e condividere.  “Mare Orientale” e “Albero in Piedi”- potrebbero essere compari di Toro Seduto- li ho adescati per caso in un pomeriggio d´estate qua ad Halle. Nel computo delle teste, le nostre squadrette di calcio mancavano di uomini, e lí vicino giocavano “asiatici”. Da allora, la domenica abbiamo il nostro rito e ci incontriamo o meglio scontriamo, del resto per far goal non serve condividere una lingua. 

Finiti i piatti cinesi, A. ha portato un tipico dolce tedesco, un vero insulto alla linea: la torta della foresta nera, una montagna di panna, cioccolato e ciliegie. Ne avanza metá, ma mentre digito, R. vicino a me se ne sta divorando una porzione ragguardevole per pranzo, del resto nella cucina cinese dolce e salato non vanno necessariamente separati. Prima di andarmene, noto che D. scruta interessato il pacchetto di frollini portato dall ´Italia. Sono i miei preferiti, rustici con crema di riso, ogni volta che ne intingo uno mi dico che Proust con la sua madeleine c´aveva davvero azzeccato. Apro il pacchetto e gliene offro uno. Lo soppesa, lo rigira, dice “ah si si, mi piace”, ma sono convinta che non ne ha mai visto uno. Il solito pilota automatico della gentilezza cinese. Lo sbocconcella cauto, poi si illumina ed esclama “oh, good, good, very good. I like!”. Gli tendo il pacchetto e gli dico di portarselo a casa, lui salta indietro dicendo “noooo”. Lo convinco che torno in Italia fra poco, me ne procurerò altri, gli mostro il girovita e forse travisa e pensa sia incinta. Infine trotterella a casa tutto contento, mostra il trofeo  e mi viene tradotto che ha annunciato fiero che IO ho dato i frollini a LUI come regalo.

In quel gesto da nulla, nei frollini dell´Iper presi in offerta, penso ancora al secolo dei miei studi, al valore rituale del dono. La mia comunicazione con D. è al minimo, eppure suggelliamo un piccolo patto: la prossima volta berremo liquore cinese per digerire qualcosa di italiano. Non so ancora come cercherò di eguagliare la perizia ai fornelli dimostrata da R., ma confido nei tutorial onlin di Giallo Zafferano  e in qualche dritta materna. 

Tornando a casa, il mio qi è soddisfatto e contento: a pancia piena si sente meglio e si stiracchia, ma gli ci vuole davvero un nonnulla per piombare in un sonno profondo e speziato. 

Oggi, secondo R., sembro proprio un "panda contento":  快乐熊猫 .(kuai le xing mao)