„We are qi mates” R. ripete sorridendo mentre sorbisce una zuppa ai semi di
fior di loto. Io cerco di dissimulare una certa perplessitá: la zuppa è
gelatinosa e di un gusto zuccherino che le mie papille non riescono a decifrare
ed apprezzare.
Il “qi” per me era, fino a poco tempo fa, l´acronimo di "quoziente
intellettiv"o, adesso so che ha a che
fare con quella che i tedeschi- credo- chiamerebbero l´Austrahlung: una specie
di aurea che ognuno di noi ha,che traspare dai gesti,
dalle parole, dalle espressioni. R. disquisisce animatamente con D. e S. per
descrivere accuratamente il mio qi, io sorrido sperando di lasciar trapelare la
parte migliore della mia "energia vitale".
Siamo a cena tutti insieme, tre cinesi che vengono da cittá distanti 3.000
km fra loro, un tedesco di genitori turchi, una messicana e una italiana che
parlano cinese e me. Io non capisco una parola, e proprio per questo quanto mi
spiegano che esiste un´espressione per indicare la “linea bianca del
chicco di riso” (bai wu), qualcosa dentro di me sorride, di un sorriso profondo che un
tempo avrei pensato provenire dall´anima. Forse è il mio qi, quel respiro che
fa di me quel che sono, che si allarga di gioia. La comunicazione stasera è
ardua: ogni mio senso è all´erta, proteso a cogliere le espressioni dei
visi, una parola fra mille che mi
ricorda qualcosa di noto (“Italii” oppure il mio nome), i gesti. Intanto D. e S. esaminano i chicci di riso Carnaroli che non han mai visto prima, mentre R. mi spiega che in antico cinese ben 7 diverse parole traducevano "riso", a secondo dello stadio di cottura. Il mio qi, allora, trova molto appropriato e calzante manifestarsi in "riso", visto che dai noi significa anche ridere, e mostro tutti i miei 31 denti permanenti e quello da latte che rimane.
Non so se il qi possa assumere diversi stati, ma mi piace pensare
che un po´sia cristallizzato nelle lacrime involontarie che mi causa l´eccesso
di spezie. Non ho idea di quali abbia usato R. per condire il pollo con le
noccioline o l´insalata coi funghi “orecchia di maiale”, tantomeno per rendere
il tofu, che quando cucino io sa di plastica viscida, una leccornia che ci
disputiamo a tavola.
Ogni cinque minuti qualcuno versa della birra e brinda, possibilmente con
un piccolo inchino e poi bevendo alla goccia. Spesso mi lasciando il fondo della bottiglia, pare porti ricchezza nonostante il saporaccio. Riesco ad intrufolarmi ogni tanto
in qualche discorso, ricorro a tutto il mio repertorio di gestualità e provo a
ripetere quello che sento con effetti sempre distorti. Colgo un “nigga is fat”
che non può essere tale, ma perlomeno mi ricordo che “nigga” è una specie di
“praticamente”, non ha un vero significato e lo si infila spesso mentre si
parla, poi mi sembra di udire “pizza” e riesco ad accordarmi per mangiarcene
una insieme. Pare che in Cina servano tutt´altra pizza. Del resto le mie fauci
triturano con gran gaudio piatti del Sud Est del Paese che non ho mai nemmeno adocchiato nei
ristoranti cinesi bazzicati in mezza Europa.
R., che non è cinese ma della Cina ha fatto una sorta di patria d´adozione
e di studio, pazientemente fa da tramite e cosí l´altra R., la mia compagna
d´ufficio dello Yunnan. Come un bambino
goffo tento ripetutamente di usare le bacchette, osservando di sottecchi i miei
vicini che con ritmo incalzante si spazzolano tocchetti di carne e tofu, ma
finisco per spargere cibo tutti intorno e ad avere un indice indolenzito. Sono
un po´ sfigata, forse, o “pelo pubico”(diao si), come tradurrebbero loro. Mi rassegno ad
usare forchetta e cucchiaio, consolandomi perché forse potrei figurare come
comparsa esotica e caricaturale in un video di Jay Chou, idolo rap di cui
ascolto in loop un pezzo che fa la parodia della corruzione degli eunuchi alla
corte imperiale che fu.
Giá, la Cina che fu, la Cina che é, e soprattutto e sempre di piú, la Cina
che sará. Cosa ne so io, storica della mutua, giovane dalle aspirazioni
internazionaliste della Cina? Bah, un paio di paragrafi sulla rivolta die
Boxeur, un compartimento stagno e stagnante delle mie nozioni targato “Guerre
dell´Oppio” e la faccia di Mao. Quando
si rammenta Tien An Men fingo di saperla lunga, ma per me è una definizione
presa da Wikipedia o poco piú. Poi tanti titoli di giornale: la Cina mai quanto
ora è vicina. Tutti i bar del mio paesello natale e di quelli accanto sono
stati rilevati da cinesi, una schiera laboriosa e silenziosa, e ogni volta che
torno c´è un negozio di vestiti in piú. Le solite cianfrusaglie cinesi,
paccottiglia a poco prezzo, già mi vedo un esercito di operai sfruttati che dorme
nel sottosuolo delle nostre cittá, rubando lavoro e immettendo sul mercato
merce non conforme ai mille marchi che abbiamo. Intanto R. compra all´ingrosso,
qui ad Halle, latte in polvere di produzione tedesca “perché in Cina non ci
fidiamo del nostro, la mia famiglia preferisce spendere per la spedizione”. Intanto la commessa di Max Moda, in provincia
di Bergamo, carina e sorridente, cerca di convincermi che la giacca mi sta a
pennello, nonostante le loro XL mi strappino sempre spergiuri di mettermi a
dieta e ammazzarmi di palestra.
Nel tema della mia tesi mi imbatto ogni tanto in eruditi olandesi,
tedeschi, francesi, inglesi che per la prima volta scoprono la Cina. Non si
muovono dal loro studiolo nel Vecchio Continente, se non per un pellegrinaggio culturale
a Parigi, Roma e Lipsia, i piú temerari anche a Londra. Il ´600 ha dato il
colpo di grazia alle speranze di unità della Respublica Christiana, guarda
inconsapevole al ´700 e le sue promesse di Lumi. Grazie alla stampa, gli
ugonotti in fuga dalla Francia si reinventano letterati e nelle lettere che
scambiano assiduamente con mezza Europa costruiscono la Repubblica delle
Lettere, mentre il volgo muore di peste a Napoli o decapita un re in Inghilterra. Se ne stanno lí, i miei cari
eruditi, e dai confini del Creato trapela notizia di documenti tanto antichi da
mettere in dubbio i calcoli fatti Bibbia alla mano sull´età del mondo. Montaigne
leggendo i resoconti di avventurieri e missionari, scopriva che in Cina non si
usavano fazzoletti, e passava per scettico immaginando che, forse, ai Cinesi
sarebbe parso strano che in Europa il muco si conservasse gelosamente in
preziosi straccetti di seta, magari pure adornati di iniziali.
Io, prodotto della generazione RyanAir, ho a malapena superato i confini
del mio piccolo, beneamato angolino di mondo, quella frazione di mappamondo che
cerca di unirsi sotto l´egida di una bandiera stellata e ha Stati sedicenti
nazionali che si trovano solo zoomando su Google Maps. Sorrido ancora, quando
vedo la pubblicità di un ristorante di cucina tipica italiana di Pechino
sfoggiare una bionda in dirndl con un boccale di birra e un pretzel in mano.
Eppure, beh eppure se chiedessero a me di buttar giú uno slogan per qualcosa di
cinesi, potrei solo far lo schizzo di qualcuno con gli occhi a mandorla e un
capello a punta che accarezza un panda.
I cinesi, in fondo, non sono poi creature cosí malefiche. E non sono neanche così simili fra loro. Tutti quelli
che incontrato qui, addirittura, sono desiderosi di comunicare e condividere. “Mare Orientale” e “Albero in Piedi”-
potrebbero essere compari di Toro Seduto- li ho adescati per caso in un
pomeriggio d´estate qua ad Halle. Nel computo delle teste, le nostre squadrette
di calcio mancavano di uomini, e lí vicino giocavano “asiatici”. Da allora, la
domenica abbiamo il nostro rito e ci incontriamo o meglio scontriamo, del resto
per far goal non serve condividere una lingua.
Finiti i piatti cinesi, A. ha portato un tipico dolce tedesco, un vero
insulto alla linea: la torta della foresta nera, una montagna di panna,
cioccolato e ciliegie. Ne avanza metá, ma mentre digito, R. vicino a me se ne
sta divorando una porzione ragguardevole per pranzo, del resto nella cucina
cinese dolce e salato non vanno necessariamente separati. Prima di andarmene,
noto che D. scruta interessato il pacchetto di frollini portato dall ´Italia.
Sono i miei preferiti, rustici con crema di riso, ogni volta che ne intingo uno
mi dico che Proust con la sua madeleine c´aveva davvero azzeccato. Apro il
pacchetto e gliene offro uno. Lo soppesa, lo rigira, dice “ah si si, mi piace”,
ma sono convinta che non ne ha mai visto uno. Il solito pilota automatico della
gentilezza cinese. Lo sbocconcella cauto, poi si illumina ed esclama “oh, good,
good, very good. I like!”. Gli tendo il pacchetto e gli dico di portarselo a
casa, lui salta indietro dicendo “noooo”. Lo convinco che torno in Italia fra
poco, me ne procurerò altri, gli mostro il girovita e forse travisa e pensa sia
incinta. Infine trotterella a casa tutto contento, mostra il trofeo e mi viene tradotto che ha annunciato fiero
che IO ho dato i frollini a LUI come regalo.
In quel gesto da nulla, nei frollini dell´Iper presi in offerta, penso
ancora al secolo dei miei studi, al valore rituale del dono. La mia comunicazione
con D. è al minimo, eppure suggelliamo un piccolo patto: la prossima volta
berremo liquore cinese per digerire qualcosa di italiano. Non so ancora come cercherò
di eguagliare la perizia ai fornelli dimostrata da R., ma confido nei tutorial
onlin di Giallo Zafferano e in qualche
dritta materna.
Tornando a casa, il mio qi è soddisfatto e contento: a pancia piena si
sente meglio e si stiracchia, ma gli ci vuole davvero un nonnulla per piombare in
un sonno profondo e speziato.
Oggi, secondo R., sembro proprio un "panda contento": 快乐熊猫 .(kuai le xing mao)
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