domenica 18 agosto 2013

Di riti ed antenati



Dal giorno del mio saluto al suolo patrio, ogni estate coincide con un pellegrinaggio piú o meno lungo nella terra degli avi. Sciacquo compunta i panni al Serio, zompetto bucolicamente per i campi concimati della Bassa Bergamasca, rendo solenne omaggio a Cittá Alta. Ma soprattutto, mi sottopongo alla cura all´ingrasso sotto l´implacabile direzione materna, irrinunciabile rito che sancisce la mia lealtá gastronomica al Belpaese

Ovunque io veleggi (tappe previste: la perfida Albione e la terra degli zoccoli arancioni), nel mio dna é iscritto che le Alpi son le colonne d´Ercole culinarie, non importa quanto succulenti siano i Maultauschen o quanto mi piaccia la cucina viet: e il rientro agostano- come quello natalizio- rinnova questo imprinting a suon di carboidrati, formaggeria varia e salumi.

Il risultato, senza troppi rimorsi, é uno strato di tenero adipe per affrontare l´impietoso inverno della DDR. Quello che mi piacerebbe poter chiamare „Sitzfleisch“, ovvero „carne per sedersi“. Ahimé questo vocabolo ha ben altro significato, perché il carneo strato serve ben piú alti scopi: chi ne é dotato, persevera strenuamente in attivitá noiose o spiacevoli. Insomma, il fondoschiena da noi é simbolo di fortuna, qualcosa che capita senza che lo si meriti o lo si cerchi.  Per i teutoni, invece, indica caparbia determinazione, é un cuscinetto che si costruisce stringendo i denti. E sulle proprie carte ci si resta anche a costo di nutrirsi di soli ravioli in lattina o Studentenfutter, letteralmente il „mangime per studenti“, un pacchetto con un mix di noccioline, frutta secca, uvetta.


Del resto, chi in Germania „ha culo“, in realtá ha „un maiale („Schwein haben“), forse perché cosi´anticamente si chiamava l´asse nelle carte, o forse perché era il premio per chi perdeva ai tornei medievali.  

Come al solito, meditando a tempo perso, insomma „a naso“ (senza tirar dritto, come significa per i crucchi), finisco per arenarmi nelle croci et delizie del Kauderwelsch. Anche questa é una parola non letteralmente traducibile, una di quelle gemme che tocca capire e poi importare cosí com´é, oppure parafrasare. Il Kauderwelsch é un linguaggio ibrido, il creolo di chi mischia svariate lingue e pronunce. „Welsch“ é un antico termine per indicare le lingue romanze, e „kauder“ il desueto per „venditore“. 

A onor del vero, pare siano stati i mercanti nord italiani in giro per l´Europa i pionieri del Kauderwelsch, per cui se continueró a blaterare in formato Google Translate, irriverente ad ogni manuale di dizione, grammatica e lessico, sapró di aver avuto laboriosi antenati, dotati di gran Sitzfleisch.


martedì 6 agosto 2013

so´procioni questi nazi!



Piccoletto e musino carino, possibile che l´orsetto lavatore abbia qualcosa a che spartire con il nazismo, tanto che gli inglesi lo chiamano „nazi raccoon“? sí e no. 

L´animale é di origine americana, ma in Germania non é raro ritrovarselo in giardino o vederlo frugare fra i cestini in un parco. Secondo alcune stime, sarebbero ormai piú di mezzo milione nella Repubblica Federale, e ogni tanto danno grattacapi perché non sono solo golosi, ma anche manualmente abili.

La vulgata vuole che sia stato il feldmaresciallo Göring ad introdurli, promuovendo promiscuitá nella fauna ariana. Göring, tuttavia, collezionava piú volentieri opere d´arte che trofei di caccia, e pare essere stato estraneo all´operazione. Certo i primi orsetti lavatori sono state liberati nei pressi di Kassel nel 1934, dunque col beneplacito delle autoritá naziste. 

A volerne l´introduzione sarebbero stati dei fabbricanti di pelliccia in cerca di nuove materie prime. Le  primigenie due coppie (una specie di doppio Adamo-Eva), si sono trovate subito a loro agio nella nuova patria e, a differenza di quanto accaduto ad altri su suolo germanico, ritenuti „stranieri“, sono andati e si sono moltiplicati.


Pensiero Estivo




Prendo commiato dalla mia ormai beneamata Halle: ad agosto solo anziani e bambini dribblano le fameliche zanzare del dopo piena e cercano frescura in ogni fontana, laghetto, rivolo. Fra di loro qualche turista alla ricerca dei fasti di Lutero e dell´Illuminismo sassone, o qualche enofilo che si é spinto nel baluardo viticolo piú settentrionale del Paese. Nel picco delle vacanze estive, la statua di Händel domina pacata la bella piazza del mercato e tutti gli edifici sono impacchettati con la speranza di trovare i fondi per ridar loro il lustro d´un tempo. Qui ogni tetto é un capolavoro di volute che anche i bombardamenti della guerra ha risparmiato, ma dopo il crollo del Muro da Halle son fuggiti in tanti, e arrivati solo studenti e ricercatori, anima brulicante ma che porta poca pecunia per ristrutturazioni e manutenzioni.




Mi attende un weekend in terra di Prussia, nella grassa NRW o Nordrhein Westfalen, a Bad Oeynhausen. Terra piatta, con qualche ondulazione all´orizzonte che i tedeschi giá chiamano „collina“, dove ancora si parla il Plattdeutsch, simile all´olandese. Il susseguirsi di paeselli ed industrie mi ricorda la mia Heimat: al posto dell´Adda scorre placida la Weser e le ciminiere si mimetizzano fra casette coi tetti a spiovente e assi di legno anziché fra villette a schiera e schiere di palazzi. Non c´é un corrispettivo italiano di „Heimat“. Se la „Vaterland“ é la patria (Vater=padre), nome altisonante che ciclicamente autorizza a sfanfarate e gloria, la „Heimat“ é la piccola patria, la casa (Heim), il luogo natio. Qualcosa di molto piú intimo, che ricorda la casa del nonno e i suoi racconti della Guerra, la pizza da Luigi a 5 E il sabato pomeriggio e il parco dove si é cresciuti suonando la chitarra con il figlio del kebabbaro turco. Cosí me lo spiega H., l´amico presso cui sto.



Per 3 giorni mi sono sentita un po´mamma orsa, un po´sorella aggiunta dei due fratelli T.: il piccolo é un metallaro di due metri e zero quattro, con chioma direttamente proporzionale, il grande, mio collega, ha qualche cm in meno in senso verticale, ma compensa con un apertura alare degna dell´aquila prussiana, che qui guata arcigna da ogni angolo. H. é membro dell´Heimatverein, le associazioni di storia locale. Mi porta a vedere la statua di Federico Guglielmo III, pomo della discordia per cui sia lui, sia suo padre, insegnante di storia al liceo, hanno scritto lettere aperte ai giornali e al sindaco. Il Federico Guglielmo in questione ha fondato la cittadina (con il nome di Königliches Bad Oeynhausen) dopo che, come vuol la leggende locale, seguendo l´allegro grufolar dei suoi maiali, un contadino scoprí le sorgenti termali. 

Da allora, la cittá é una Kurstadt, ad ogni incrocio c´é una clinica od un centro benessere, tutti rigorosamente in severo stile imperiale, tanto che mi immagino nugoli di mogli di ufficiali prussiani mollemente passeggiare fra i sontuosi parchi e i loro pargoletti giocare al soldato mentre i loro padri s´impegnavano ad allargar confini a suon di baionetta.
 Federico Guglielmo la cittá l´ha pure fondata, ma proprio liberale non fu, ed anzi represse nel sangue vari moti romantici. Ed é proprio in quel periodo della storia tedesca che la Heimat divenne un principio fondante dlel´identitá, un movimento che poi, raggiunta l´unitá nazionale, si rafforzó per cercare di sentir propria un´entitá politica che era frutto di colpi di cannone e firme attorno ad un tavolo. 


A mollo in un laghetto, osservo gli immancabili calzini bianchi o color carne infilati nei sandali: da qualche parte ci dev´essere un regolamento sull´uso del sandalo, e toccherebbe spiegare che possono essere portati anche senza calze: loro preferiscono, quando si sale sopra i 25 gradi, pascolare a piedi nudi su ogni superficie calpestabile, che sia la metro, un negozio o una qualunque strada. Al crucco piace la natura, seppur la natura di casa, domata: lo specchio d´acqua dolce raggiungibile in bici, il sentiero che si snoda fra i boschi in periferia (il Wanderweg), sdraiarsi in costume adamitico nei parchi cittadini. La Heimat, del resto, comprende anche un certo, romantico affetto per tutto ció che era la natura germanica, per preservarla dall´industrializzazione che si temeva selvaggia: il buon tedesco in settimana lavora, probo spirito borghese, e nel weekend scova sempre nuovi angoli verdi dove poter andare a funghi e grigliare.

Certo addentrarsi nel concetto di amor patrio e fedeltá al borgo natio é un campo minato: vengono in mente non tanto gli artigli dell´aquila prussiana, quanto i gli uncini della croce nazista.

Dopo una partita a basket, dove i miei stratagemmi latini nulla possono contro l´ariano +30 cm del mio sfidante, H. mi mostra una Stolperstein, una piastrella dorata che ricorda la deportazione in un Lager di un ebreo, omosessuale, rom, oppositore politico qualunque, posta davanti a quello che era l´uscio di casa loro. Mi sembra che ogni tedesco sia passato per gli ingranaggi ben oliati della „Vergangenheitsbewältigung“: dissezionare il passato nazista, guardarne i mostruosi monconi pezzo per pezzo, ingollare la responsabilitá e – si spera- farsi gli anticorpi contro un eventuale colpo di coda. L´ipersensibilitá teutone a tutto ció che é anche solo una velata, goliardica allusione al nazismo contribuisce allo stereotipo di gente inflessibile, ma fra loro, i fratelli T. e gli amici ogni tanto si concedono addirittura qualche battuta. H. mi sussurra „vedi, per quanto ci azzardiamo a riderci sopra, é meglio avere qualcuno dell´Asse a sentirci, cosí capisce e non travisa“.

Chissá. Penso ai ragazzi di Saló eroi come i partigiani, al Duce burbero statista, ma regolatore di treni, e alla bella abissina sedotta a suon di iprite e altri asfissianti, e mi chiedo se non toccherebbe anche a noi guardare in faccia quel che fu senza far spallucce con nonchalance.  
Morti e soprusi del passato, si sa, turbano meno la coscienza di quelli ancora tiepidi nella memoria collettiva, cosí preferisco passare al militaresco museo della storia prussiana, lasciando un pugno di euro per comprare una targa con l´aquila imperiale e una cartolina con gli ipse dixit di Federico il Grande. 



Al rientro, intravedo la statua del Kaiser Guglielmo alla „Porta Westfalica“: qui si incrociano la Weser e il Reno, un po´il Piave di quassú. Il Kaiser guarda in cagnesco verso la Francia, nemico di sempre, incurante della canicola quasi italica che prostra i suoi concittadini. Questi, con l´Heimat nel cuore, si rifugiano al WEZ, supermercato regionale, avventandosi su salsicce turinge, feta greca, pomodorini spagnoli, humus libanese, sushi giapponese. Anche Luigi, il pizzaiolo, pensa alla Heimat: il suo locale é tappezzato da foto di una Calabria che non c´é piú e bandierine Schwarz-Rot-Gold.

Io, ormai riapprodata in terra bergamasca, medito su quale sia la mia „Heim“, che non é la „Haus“, un luogo definito da pareti o segni su una mappa. In sottofondo mi rispondono i cori della Festa della Lega, padroni a casa loro: l´afa non scalfisce il celodurismo.