martedì 18 dicembre 2012

rientro

Da qualche ora in patria, con sosta dal dentista dopo spavento per esser capitata da un collega teutone di scuola, evidentemente, mengeliana.

Ho già ripristinato l'egemonia interna dei carboidrati e inalato una coltre di nebbia misto smog, sbuffato all'applauso collettivo quando l'irlandesissimo accento della RyanAir annunciava l'ennesimo scalo ahead of schedule e schiaffato in lavatrice lo zaino compagno di tante avventure, riesumato il cellulare vodafone e deciso che domani si torna in pellegrinaggio al CSOA dei bei tempi d'oro.

La stessa bandiera sbiadita della Lega mi ha accolto al varco del confine del paesello, e la stessa ridda di bestemmie (ma che da noi son vezzose) bergamasche con accento senegalese mi ha fatto da tappeto rosso.

Ho già consegnato il mio pensierino berlinese ai genitori e constatato l'eterna crescita dell'odiata tartaruga fraterna che cresce sempre e comunque, a dispetto di crisi di governo e di finanza, di cambi di vicini di casa e di fidanzate del proprietario.

Mi vengono in mente solo due cose: una scoperta linguistica e il commiato del mio coinquilino.
Partiamo da D., che da gennaio lascerà un incolmabile vuoto nei miei pigri quesiti pseudoantropologici: ieri sonnecchiavo in tandem con B. guardando un film che è risultato melenso proprio come il titolo.
A metà film, lo Spannung non è della trama ma segnato dall' irruzione inaspettata di D, che mi chiede conto della quinta paperella di gomma in bagno. Professo la mia innocenza, allargo le braccia e gli chiedo se è sicuro che manchi una preziosa bestiola alla sua collezione.
Certo che sì: l'abduzione del penniforme gommoso deve essere avvenuta la notte di sabato, quando un consesso di alticci amici si è radunata da lui per giocare a poker. Come sempre in queste occasioni, trovo sempre ottime scuse per defilarmi e dribblare l'umanità che ciondola per casa.
A riprova del numero originario del bestiario, D. rientra dopo pochi minuti di affanosa quanto infruttosa ricerca: una foto sull'i-phone testimonia che erano proprio 5.
Mi offro di andare in cerca del pennuto perduto, con evidente malumore di B. Niente da fare, D. decide di postare un perentorio quesito su Facebook, sperando di scovare il malfattore. Dopo circa 1h, rispalanca la porta saltellando: un amico l' aveva nascosta in un rotolo di cartigienica. Ora possiamo augurarci buon Natale e io finirò di vedere il film melenso.

Quanto alla perla linguistica,è presto detto: il proprietario del mio nuovo appartamento si chiama Signor Membro. In tedesco, "Glied", per cui il giocone "Jeder Mann ist ein Mitglied". Io, come sempre, mi autoproclamo membro osservatore e auscultatore.

giovedì 13 dicembre 2012

Di ghiaccio, santi e zucchine


Il sabato mattina a Berlino, specie quando è incellophanata da uno strato di ghiaccio, dovrebbe passarsi a letto, a ripetere come mantra i buoni propositi di non toccare più alcool per il resto della settimana.

Invece, capita che l’amico di un conoscente del club di vela di Berlino organizzi un “alternative tour” (su terraferma) e che il freddo diventi la migliore sveglia: i muscoli intorpiditi capiscono al volo che, per non soccombere alla dura legge del termometro, devono portarti alle 10.00 al punto di ritrovo e mantenerti sempre all'erta. 

Alex a occhio e croce ha trent’anni, fotografo freelance che per sbarcare il lunario fa la guida “alternativa”. L’aggettivo, si sa, sta a Berlino come “bel” al nostro Paese: binomi inossidabili che neanche la prova, eventualmente, dei fatti potrebbe mai smentire. Lo scruto scettica dalla fessura tra sciarpa fin sotto il naso e finto colbacco calato sulle orecchie, pensando a quanto promette il sito degli alternative tours “per noi questo non è solo un modo di far soldi, perché quello che vi mostriamo lo respiriamo in prima persona”. 

Ed è proprio così. Il fil rouge che Alex segue fra le neve mentre ci accompagna tra Friedrichshain, Kreuzberg e Neukölln è quello della sua passione per la street art. Mi racconta che per lui il fascino dei graffiti sta proprio nella loro volatilità, che per coglierne la transeunte bellezza uno deve starci attento, amare la città e osservarla sempre con rinnovata curiosità, esserne compartecipe e non semplicemente un pendolare degli spazi in cui si muove. Gli piace l’idea che la street art interagisca con l’ambiente urbano: ci mostra The Astronaut, uno dei graffiti più conosciuti di Berlino. Dal 2007 fluttua su un muro di Kreuzberg, e alla sera regge una bandiera, la cui ombra è proiettata da una concessionaria antistante. 

Molto meno scenografici sono i “6” che un artista 80nne va dipingendo ormai da anni su pietre, pali della luce, volantini rimasti attaccati ai muri. Le autorità ormai lo conoscono, ma lui si limita a sprayare su superfici che non sono né private, né passibili di “danneggiamento”: nemmeno Alex, che riesuma dalla neve un 6 verde fosforescente spruzzato su un cordolo del marciapiede, sa se ci sia un significato sotteso alla cifra.

Il significato della street art è collettivo, per questo mutevole e soggettivo. Mi racconta la storia di Linda: qualche anno fa, un anonimo disperato le lanciava continui messaggi dai muri della città, chiedendole di tornare da lui e che l’avrebbe aspettata in un determinato bar della città. Lo strazio del cuore infranto non ha lasciato indifferenti nemmeno i berlinesi, che con messaggi lasciati in città, ai giornali o alle radio, han preso partito ora affinché la misteriosa Linda concedesse al suo innamorato un’altra chance, ora offrendosi di darle una mano a liberarsi dall’incallito stalker. Infine, pare che l’artista abbia rivelato ai microfoni di una radio berlinese che Linda altro non era che una finzione artistica, un modo per comunicare anonimamente con la città e farla partecipare all’opera d’arte.


E’ quello che fa anche il collettivo Various and Gould, di cui mi colpiscono particolarmente due progetti: Die Identikit Serie e Moderne Heilige. Per il primo, gli artisti hanno assemblato collage con parti del viso di emigranti famosi (da Obama a Zidane), alternandoli a parole ricorrenti nei titoli nei giornali associati a delle nazionalità. Lombroso e forse anche Mendel studierebbero interessati le combinazioni anatomiche risultanti, con intermezzi quali “nazi”, “drogato” e “pagano”. A me, più prosaicamente, frulla in testa un Superuomo composto dai nostri vari bei politici e gli epiteti che il volgo assegnerebbe loro, ma ahimé non ho mai avuto un minimo di senso artistico.

Nella serie sui santi moderni, il collettivo berlinese si è accollato la responsabilità di fornire nuovi, attualissimi santi: c’è Santa Data che protegge i dati informatici, San Spekulatius patrono degli investimenti finanziari e Santa Diversita che sfoggia un apparato sessuale composito su uno sfondo arcobaleno. Chissà che, tra una twittata e l’altra, anche Sua Santità non passi in rassegna i nuovi candidati e decida di aggiornare il pool cui rivolgersi per raccomandazioni rigorosamente spirituali (per quelle terrene la scelta è fin troppo vasta). 

Per chi volesse accendere un cerino a questi moderni santi, basta fare un salto in zona Rosenthaler, dove fra una boutique di lusso e l’altra, si nasconde una rete di Höfe (cortili) dove regnano sovrani i graffiti. Tra gli altri, la celeberrima Little Lucy: bambina che escogita mille modi per liberarsi del suo gatto, diventato l’emblema di uno dei writers più in voga della città e “Just”, che Alex ci indica entusiasta arrampicandosi su un cordolo. Io non ci trovo fascino alcuno, ma la scritta è stata sprayata con un estintore, tecnica pericolosa che combina perizia alchemica per mettere a punto il colore e felina agilità per maneggiare l’aggeggio tra un tetto e l’altro. 

A chi ha la pazienza di addentrarsi in questi cortili, chic solo dopo il crollo del Muro, si rivelano anche altre perle: mi riprometto di passare presto al piccolo museo dedicato ad Otto Weidt, Schindler berlinese fabbricante cieco di pennelli che con mazzette ed espedienti riuscì a salvare svariati ebrei dai campi di sterminio. 

Un ultimo sgambettare tra i ghirigori di neve sporca ci porta a Kreuzberg, quartiere che Alex ama particolarmente, tanto da schierarsi fra le fila della squadra locale nella battaglia a colpi di spazzatura che avviene ogni anno contro Friedrischshain, sull'Oberbaumbrucke. Facciamo un salto all’ex complesso ospedaliero di Bethanien, che dal 1970 è uno dei simboli della Berlino “popolare”, intesa come appropriazione di spazi al servizio dei cittadini. Non mi è chiaro il meccanismo giuridico per cui da un’occupazione “di massa” (Alex sottolinea: “non solo punk e alternativi”) si è passati ad un riconoscimento formale, fatto sta che gli imponenti edifici di metà ‘800 sono oggi adibiti ad (immancabili) atelier d’arte, a scuole di musica e spazi per gli studenti. A due passi c’è anche la “fattoria dei bambini”: un salvifico lembo di campagna nel cuore della città. L’idea è semplice, forse per questo vincente: per bambini nati fra centri commerciali e internet café, avere caprette e pony con cui giocare è una necessità pedagogica basilare. Una bimbetta cerca di convincerci a saltellare sul laghetto ghiacciato insieme a lei e, forse preda di un improvviso moto pascoliano, sto per cedere alla tentazione: solo un sinistro scricchiolio e il ricordo di un (pur patriottico) affondare davanti allo Spilberk mi salvano dal baratro.

Il nostro tour finisce al Prinzessingarten, una urban farm subito fuori Moritzplatz. Qui zucchine e piante aromatiche sono piantate in box e cartoni, pronti ad essere trasportati in ogni angolo della città e a fronteggiare un eventuale sgombero. Chi vuole portarsi a casa qualche ortaggio a km zero non ha che da riscoprire il pollice verde personale e dare una mano all’umanità varia che ci vive.

Appena varcata la soglia, sarà pure effetto placebo, perfino i rumori dell’inteso traffico in direzione Kotti si attutiscono, e bere un succo di mela bio riporta alla mente bucoliche immagini perdute, flash dell'infanzia a ridosso delle Prealpi  orobiche. Mi piacerebbe poter dire che sto pensando alla famosa madeleine della letteratura, ma molto banalmente è il perfido critico culinario di Ratatouille a balenare nei miei pensieri. Oggi il Garten ospita un mercatino di Natale, con ninnoli sudamericani e tibetani venduti da bionde donzelle, coltelli fatti a mano da rasta attempati e crepes originali francesi arrotolate da un afroamericano. In un angolo, in una specie di yurta cittadina, un vecchio che potrebbe essere biblico ammalia grandi e piccini con le sue enormi bolle di sapone. Un amico si cimenta e non riesce più a smettere, ripete che è davvero “krass” e rilassante, al che il canuto sfodera un impensabile biglietto da visita e racconta del valore terapeutico della sua arte (formula del sapone, natürlich, segreta, ma rigorosamente bio): ai funerali spiega ai bambini l’evanescenza della vita disegnando bolle iridescenti nell’aria.


Certo come il “bel” da noi fa (o dovrebbe fare )business, anche tutto ciò che è alternativo a Berlino fa soldi. Del resto, tutti sanno che la città è povera, ma sexy, e la forza della street art e di tutto ciò che è “social” sta anche nelle carte di credito dei turisti che immortalano quelli che a casa loro chiamerebbero scarabocchi vandalici. Alex ci lascia mentre ci avventiamo su un falafel bollente, persuaso tuttavia che il fascino delicato e mutevole di Berlino riuscirà a sopravvivere anche alla piaga delle locuste della gentrificazione: forse ha un’immaginetta di San Gentrifizian nel portafoglio, che riempie grazie alle mance dei turisti che cerca di iniziare alla sua passione per la street art. 

Del resto, che Linda sia o meno in carne ed ossa conta poco, le favole anche quando sono urbane sono fatte per crederci e poter scivolare sui laghetti ghiacciati della fantasia senz’annegare nelle morse della torbida acqua sottostante. 

giovedì 6 dicembre 2012

verità

La Sassonia (insieme alla gemella Turingia) detiene i record nevosi della Repubblica Federale. (tradotto: ho neve che si è infilata sin nel duodeno, e un colbacco di cui vado fiera)

In Sassonia si mangia tanto maiale, di cui si vanta produzione e macellazione propria. (tradotto: ne ho mangiato talmente tanto, che spero di non essere porciforme e venir impaninata)

La Sassonia è ex ddr (tradotto: devo ancora capirne bene tutte le conseguenze, a parte il proliferare di stand mangerecci ungheresi)

In Sassonia si parla l’orrido sächsich, che però non è sexy ed è il dialetto più deriso di Germania (tradotto: presto frullerò anche questo accento ai vari dello stock, sto pensando ad un gemellaggio culturale col bergamasco)

Halle è piccola, si gira tutta a piedi o in bici. (tradotto: ho consumato le suole delle scarpe per andare a vedere i quartieri ex DDR oltre i boschi che la circondano).

Halle è economica (tradotto: ho un appartamento, il primo della mia carriera, a poco).

Halle è provinciale (tradotto: le pizzerie italiane sono molto meno italiane di quelle turche di Berlino e usano cheddar al posto della mozzarella).

I crucchi mandano giù qualunque cosa (tradotto: le vecchine si mangiano panino, fegato e cipolla e per un compleanno domani stavo pensando di proporre joghurt e muesli)

Non tutti i crucchi sono ariani (tradotto: ho un compagno di PHD che sembra il fratello maggiore di Pocahontas, pur professando limpieza de sangre. per fortuna, a salvare i beneamati cliché, c'è un tizio che è due metri in ogni possibile senso di misurazione, con equipaggiamento cromatico consono)

I crucchi sono animali (tradotto: se non ho preso le pulci stando da questo couch surfer, sono a prova di contaminazione)

I crucchi sono animali (tradotto: si danno a perfomance a luci fuchsia spinto senza curarsi degli involontari astanti)

Insonnia e freddo: non riesco a compitare qualcosa di più coeso. Tra un’ora e un quarto ho il Mitfahrgelegenheit, ovvero “l’opportunità di conviaggiare”: per 10 E mi infilo nella macchina di qualcuno che fa la tratta che mi serve. Mi piacerebbe poter dire che mi aspetta un WE rilassante, ma: il ragazzo che mi ospita qui ad Halle sarà mio ospite a Berlino, e su preciso ordine del mio coinquilino, non posso lasciarlo a casa da solo, ergo babysitting in arrivo; devo fare lezione di italiano perché il portafoglio piange lacrime e sangue; metà della gente che conosco ha deciso di nascere tra il 6 e il 10 dicembre; devo trovare un successore per la mia camera, perché il coinquilino millanta di essere alle prese con tentativi di conquiste galanti, ergo di non averne tempo; devo trovare chi mi ospita settimana prossima ad Halle.
E con questo, faccio lo zaino e torno sotto la bufera di neve. Ho passato la settimana ad inseguire tutti gli annunci immobiliari che rientravano nelle mie potenzialità di budget, e ieri ho vinto la singolar tenzone per l'appartamento dei desideri a tavolino: lo sfidante, forse in preda a sacro terrore nei miei confronti, non si è presentato.

venerdì 23 novembre 2012

Auf nach Halle

Cambiare. Pare che sia il motto di quest’ultimo scorcio di 2012, che già proprio monotono e prevedibile non è (per fortuna) stato.

Weekend a Bruxelles per una rimpatriata col mio harem di more: la dieta dei trappisti ha dato i suoi frutti, e al rientro a Berlino ero mezza influenzata. La sera dopo mi sono improvvisata regina dei fornelli, ma ho giocato facile: ero invitata a cena (ma cucinavo io, ‘sti barbarici crucchi) dal più vecchio della nidiata W., potenziale cognato. E, si sa, i rapporti cognatizi si rinsaldano intorno a un bel piatto di casoncelli trafugati in sacchetti di plastica sottovuoto e, per chi è vegetariano, con una parmigiana di melanzane suggerita da Sonia di Giallo Zafferano. Sgattaiolati in cucina i vari crucchi presenti (B. ha 3 fratelli e una sorella) io e l’altro latino presente, il gallico moroso della sorella, ci ritroviamo a porci l’eterno quesito sui codici di socialità teutoni. Alla fine saranno Johnny Halliday (alias “ils veulent se moquer de moi, c’est Johnny quoi!”) e MoDo, italianissimo cantautore di pregio cui si deve « Eins, Zwei, Polizei » a reggere le redini della serata.

Mercoledì, Halle. Non che prima sapessi esattamente posizionarla sulla cartina. Pensavo ad una gita a spese del Max Planck Institut, cui per un suggerimento dell’ultimo minuto avevo inviato la candidatura per un dottorato di ricerca in storia. Senza motivazione, era il modo per rompere il ghiaccio. Munita di rotolo di cartacucina per le rinoemergenze, mi infilo in treno e via, alla volta della Sassonia Anhalt, ex DDR. Appena fuori Berlino, boschi e fiumiciattoli, interrotti solo dai solerti annunci del capotreno che scandisce le fermate e informa sui tempi di percorrenza.
Questa è "Halle", anche se Google come primo risultato dà l'attrice Halle Berry

Giunta ad Halle, dal dépliant che sgraffigno in stazione, apprendo che qui c’è la più antica fabbrica di cioccolato in Europa, e un’ora dopo inzaino gaudente uno stock di praline locali dai gusti più impensabili: limoncello, birra nera, scorze d’arancia e marzapane.
Zompetto per il centro: carino con le sue guglie e i viottoli. Tralascio di inseguire la maschera funeraria di Lutero, anche se fin da metà tragitto del treno, i nomi delle fermate mi ricordano che sono in pieno feudo luterano. Ho poco tempo per fare la turista: cerco di capire dove sta il Max Planck e di trovare il tram corrispondente. Purtroppo non è quello il cui capolinea recita “Frohe Zukunft” (futuro felice), bensì un più sinistramente padanofono “Trotha”, ma spero non sia di cattivo auspicio. Che poi, cosa mi aspetto? Forse è il mite vecchietto che mi ha indicato la strada ad avermi fuorviato, dicendomi che "incrocerà le dita per me".

10 minuti a piedi e sono davanti all’edificio che mi attende. Niente grandiosità, potrebbe essere la villa dell’impresario di pompe funebri del mio paese, solo senza pacchiane statue pseudogreche, ma con maschere africane alle pareti. E sì, perché questo è l’istituto per la ricerca storica ed etnologica. Una puntuale segretaria mi fa subito compilare il modulo per il rimborso delle spese di viaggio e fotocopia tutti i biglietti dei mezzi che ho usato, poi una minuscola mezzo tedesca mi preleva e mi porta nella sala dove avverrà il mio colloquio.

Nei pochi minuti che mi lasciano per togliere la felpa a righe smunta e infilare una giacca finto profescional, scorgo solo titoli in ungherese e polacco attorno a me: scoprirò poi, quando uno dei professori mi si rivolgerà in polacco (chiedendomi perché diamine l’ho studiato), che molti qui dentro si occupano di storia dei vicini di casa orientali.

Dunque, intorno a me sui divanetti stanno la nanetta, il professor P. che parla inglese con inconfutabile accento teutonico, il professor M. (lo stesso cognome dello joghurt che commette atti impuri con il sapore) che sfodera un impeccabile italiano, e il prof. H., gallese che potrebbe benissimo essere zio di uno degli Hobbit del Signore degli Anelli. (E gallese, in tedesco, è omofono di "valigia" in bergamasco, come credo in qualunque dialetto a nord del Po).

Non avevo capito nulla. Il colloquio è serio, molto serio. Mi ritrovo, dopo un anno e mezzo dal mio congedo dall’Unimi, a riesumare la suprema, immortale arte del rigirare la frittata: mi si pongono domande circostanziate, molto pertinenti. Questi il progetto di ricerca l’hanno letto eccome, il prof. P. ha tutta una serie di note e sottolineature a lato e non riesco a decifrarne l’espressione da dietro gli occhiali perfettamente tondi e con montatura di moda probabilmente nel primo dopoguerra.

Finito il colloquio, mi chiedono di attendere e si ritirano per confabulare. Mi dicono che vorrebbero decidere subito. Passeggio avanti e indietro compitando impossibili titoli ungheresi e cercando di rispolverare il mio misero polacco. Tasteggio un sms sul cellulare, tampono le solite rinoemergenze e spero che la febbre che mi sento addosso non sia solo da termometro al mercurio.

Le ufficializziamo che, se accetta, da settimana prossima è dottoranda al Max Planck Institut e alla Luther Universität di Wittenberg”. Eccolo, Lutero che torna. Mi toccherà andare in pellegrinaggio alla porta dove affisse quelle tesi che cambiarono l’Europa.


Cambiare, appunto. La sera, in stazione, sono talmente confusa che oso mangiare la prima Kartoffelsalat della mia carriera, e riesco perfino a trovarla buona. Il giorno dopo, nella mail, mi attende un contratto. Quello stesso contratto, ora, giace sulla mia scrivania. Non ancora firmato. Davanti a me c’è anche la lavagnetta con ancora scritto il terribile quesito del coinquilino “dov’è il rotolo che avevo appena messo in cucina?”. Temo dovrò fornirgli prova dell’infausto uso che ne ho fatto. Ma sono talmente di buonumore, che gliene compro una confezione-scorta.

Per settimana prossima- sia lodato il Couch Surfing- ho trovato un ragazzo che mi ospita sul suo divano. Ho già fissato un paio di appuntamenti per vedere di trovar casa: per fortuna la pazza impennata dei prezzi che ha piagato Berlino non sembra aver ancora raggiunto la pur vicina Halle. Con 280 E dovrei potermi permettere addirittura un monolocale (spese comprese) e per la prima volta, chissà, dire “casa mia”. Farò la pendolare fino a Natale, poi dovrei riuscire con un solo viaggio in macchina a portare le mie quattro cose “là”, se avrò un “là” dove stare.

Intanto ho dovuto: direi byebye al lavoro part-time per il quale mi avevano “assunto” il giorno prima, richiedere il rimborso del corso di russo a cui mi ero iscritta per gennaio e rifissare tutte le lezioni di italiano per il weekend. Ma non ho ancora firmato. Wie lustig. Non credo troverò una valida scusa per non apporre il mio autografo sotto le 4 pagine teutonofone. Ma in qualche modo, il mio cervello si trastulla illudendosi di riflettere. Del resto, il reparto segherie mentali è l'unico che non ha subito crisi e flessioni.

Ho appena chiamato Cathrine, un’emerita sconosciuta che cerca compagni di viaggio per lunedì. Ovviamente, i treni crucchi sono una fucilata economica. Il bus per 35 E farebbe avanti e indietro, ma infilandomi in macchina con qualcuno faccio lo stesso tragitto Berlino-Halle-Berlino per 20E. E, se mi va di lusso, chi guida e chi viaggia con me è pure studente ad Halle. Studia lì anche D., il couch surfer presso cui fisserò il mio sacco a pelo per settimana prossima. Anche N., che sempre tramite Couch Surfing mi sta girando gli annunci della bacheca universitaria (di Halle, cui io comunque non potrei accedere, anche se mi attivassero seduta stante un account). Non ci si aspetta che possa essere attiva da subito, ma in qualche modo "lo si auspica". Ma la mancia non la danno, così meglio cominciare subito e provare a vedere se mi ricordo come è fatto un libro.

Il Mitfahrgelegenheit, così come la Kartoffelsalata, sono un inedito per me. Ma, in qualche modo, sento che potrebbe tutto andare liscio.
O, come si canticchiava io e il gallico per istigare alla socialità (anche solo per reazione) i commensali, gut gut super gut, alles super gut. Sperar non nuoce, specie in questo clima già pre-natalizio.
Chissà che il prossimo post lo digiti dalle rive del fiume Saale (perchè di Halle ce ne sono svariate in giro per la Germania, l'Europa e perfino il mondo).
Gut, gut, super gut, alles super gut.

mercoledì 14 novembre 2012

DAF: Deutsch als...?

Dopo 1 anno e mezzo si torna fra i banchi per un esame: non è facile dopo un anno di colletto (o collare di forza?) bianco, e la tensione mi consuma. Devo sottopormi al test DAF, il test che certifica una conoscenza della lingua tedesca adeguata all’ambiente accademico.

Al solito: si ascolta, si legge, si scrive e si parla. Come da prassi, in aula solo penna, documento d’identità e una bottiglietta d’acqua, uno sguardo all’orologio e via. Io mi sono portata anche una dose cospicua di pocket coffee, a fine giornata almeno potrò dire che la tachicardia è solo dovuta ad eccesso di caffeina e non al mancato aplomb in sede d’esame. Come me, altre migliaia di persone intorno al mondo stanno facendo lo stesso test, nelle stesse ore, al netto del fuso orario: il DAF è la chiave per poter studiare in Germania, dove le tasse universitarie sono molto basse o, addirittura, inesistenti.
Ma, come ogni assembramento di esseri umani, anche questa splendida mattinata di ghiaccio e sole mi permette di esercitare gli occhi in un po’ di human watching spicciolo, sguazzando negli stereotipi e nei luoghi comuni che mi piacciono tanto.
Il mio numero d’iscrizione mi assegna ad un’aula dove noto solo occhi a mandarla: vicino a me scorgo un P.Lee che il passaporto mi suggerisce essere coreano. La lista include cinesi, giapponesi, thailandesi. A salvare l’onore dei caucasici, quando ormai stavo per perdere ogni speranza, si palesa un ingombrante danese, ovviamente di cognome fa Larsen.  Ogni volta che alzo la testa dai fogli per sgranchire i pensieri, l’unico altro capo che incontro sulla mia linea di vista è la sua, che sovrasta l’esercito di calotte craniche nere e che non si ergono sopra il metro e sessanta.
Dalla schiera degli asiatici (non riesco proprio a distinguerli, potrebbero avere dai 15 ai 42 anni) fa capolino una certa T. Pan che, infrangendo le regole, necessita dei servizi dopo l’inizio della prova. L’esaminatrice bavarese tentenna: telefona ad una collega che scorterà la debole vescica in bagno. Il mio compagno di melanina freme nella sua hipsteritudine: “Scusi, non è problema nostro se lei non ha pensato prima ad andare in bagno”. Solo il giuramento di una protocollazione del fattaccio cheta lo scandinavo sdegno, e la prova prosegue, fra sospiri e fruscii di fogli.
Ogni tanto, in mancanza di ispirazione personale, mi verrebbe da sbirciare quanto scrive  P.Lee, ma è talmente raggomitolato sul banco, scrive talmente minuscolo, che sarebbe solo fatica sprecata. Dietro di me, una thailandese il cui cognome occupa due righe si è tolta le scarpe, lo capisco dopo un certo obnubilamento mentale, che combatto a suon di pocket coffee perché le finestre non si possono aprire. Quando mi incaglio su un ostacolo grammaticale troppo ostico, indugio sull’unica distrazione visiva che mi è concessa: un’enorme cartina della Repubblica Federale, che troneggia su tre quarti della parete. Nel mio campo visivo c’è, guarda caso, il Baden Wurttemberg e così il mio screen saver mentale sono Memmingen, Reutlingen, Tubingen e tutta la ridda di città e paesucci che così finiscono.
ngen, ‘ngen, ‘ngen è il nuovo zen.
A metà esame abbiamo 3 quarti d’ora d’aria, se così si possono chiamare. Possiamo pascolare tra le aule, il corridoio e i bagni, guai a chi armeggia con cellulari, per non parlare di voler uscire dall’edificio. Il buon Larsen si avvinghia alla macchinetta del caffè e ne prosciuga qualunque bevanda disponibile (calcolando che: latte macchiato, cappuccino, cioccolata cremosa e milchkaffee sono tutte la stessa, zuccherosa brodaglia). Con buona pace mia, noto che il deflusso dalle altre aule conforta la proporzione demografica ormai imperante: oltre ai soliti asiatici, ci sono indiani e nordafricani. O forse è solo perché, iscrivendomi all’ultimo minuto, l’unico posto disponibile trovato era al Eurasian Institute?
In effetti, alle pareti campeggiano festose foto di scambi culturali algerino-tedeschi, sino-turchi e tutte le possibili varianti intermedie. La AOK (assicurazione sanitaria) ha tappezzato le pareti con cartelloni ammiccanti in arabo (credo) e cinese (credo) con tariffe scontate per gli studenti. I dirimpettai di piano sono l’associazione turca di Berlino, e lasciando ‘ngen per riposare lo sguardo alla finestra, è al canale di Kreuzberg cui rivolgo i miei sospiri di esaminanda.
Nonostante siano solo le 11.00, qualcuno ingurgita profusioni di panini, e c’è chi  osa, addirittura, ingollarsi una lunch box raccattata a qualche untuoso take away. In un angolo ritrovo qualcuno di caucasico: Svetlana sta parlando fitto con Ekaterina, e addirittura poco dopo sento una litania contro l’esame in spagnolo, ma con chiaro accento brasiliano. Mi conforta constatare che non tutti i carioca sfoggiano fisici da Copacabana. Più in là, una minuscola asiatica (mi sbilancerei: thailandese) cerca di impietosire l’inflessibile esaminatrice a lasciarle tempo per trascrivere le risposte sul formulario apposito.
Risoluta a non violare la dieta di soli pocket coffee, butto un occhio in aula: i vari Lee, Pan, Chin sono tutti ancora in classe. Quella senza scarpe dorme, evidentemente a comando, e quasi sembra non respiri. Il mio vicino ha chiuso gli occhi, ma è ritto come un fuso: sospetto che abbia un chip impiantato nelle palpebre e che ora stia ripassando la declinazione degli aggettivi mentre finge un pisolino di riflessione.
Ma il vero momento di breakdown arriva quando siamo tutti a tu per tu con un computer e incuffiati e dobbiamo sostenere l’orale: a tutti sono propinate le stesse domande, e tutti contemporaneamente diamo il nostro meglio. Significa che, ogni volta che ho finito e attendo il beep finale, in sottofondo ho una ridda di blablabla cruccofoni senza R, fatto salvo il solito danese. Sembra un po’ di stare dentro un macchinario per la TAC, bombardati da suoni indistinti e con lo stesso nervosismo. Anche perchè, solo in un esame di crucco poteva esserci come prova (anzi, ben due prove), quella di descrivere un grafico e le sue variazioni.
Alla fine, quando l’esaminatrice pronuncia la fatidica parola “fine”, si sciolgono i ranghi. Anche il mio vicino coreano acquisisce sembianze umane, mentre si ingiacca e si indirizza verso la metro: avrò spento il microchip oculare.
Prima di tornare alle faccende quotidiane, mi sembra d’obbligo tributare omaggio all’eurasiatismo del quartiere, e mi lascio andare alla deriva al mercato turco di Maybachufer dove, probabilmente, nessuno sa cosa sia il test DAF, ma pomodori e arance hanno sapore di casa, così come il baffo che in loop urla “Ein Kilo, ein Euro schöne Dame, ein kilo, ein Euro” e la signora che nel suo trabiccolo impasta torte salate.
Tornando a casa con variopinti sacchetti di spezie, verdure e un pane arabo, dimentico i dolori dell'esame, almeno fino al momento della verità: tra 6 settimane, insieme a tutti gli altri esaminandi del globo di questa tornata, avrò il riscontro.

venerdì 2 novembre 2012

un post del cazzo


Il mio studente L. è violista all’opera: conosce a memoria “Le nozze di Figaro” e, quando arranco sulle scale per andare a lezione da lui, con ancora evidenti i segni del mio flirt toccata e fuga con Morfeo, mi accoglie con “ero ansioso di vederti” e poi infila qualche rima forbita. Poco dopo, però, gli spiego che “augello” è il prosaico “uccello”, e scopro che in romeno (la sua lingua madre), si traduce con “passera”. Al che urge una nota ornitologica e un excursus fra passere e uccelli. Il che mi porta, inesorabilmente, a ricordarmi che avevo promesso all’altra metà del cielo un post ad hoc, dopo la disputatio ficae.
E per non sottrarmi alla par condicio, provo a cimentarmici (volevo proprio usare questa parola cacofonica, oh sì).
Dunque, cosa sia il “cazzo” è abbastanza risaputo. Prima o poi, tutti gli studenti germanofoni cadono sull’uccello (riposa in pace, Mike), cercando di tradurre “Katze” (gatto, che suona “cazze”). Ormai reagisco con aplomb british e correggo in automatico, senza colpo ferire, la distinta 50nne di turno che mi compita tutta concentrata “io amo i catzi e ho un catzo a casa”.
Al solito, sono le mille accezioni accessorie a sfuggire anche agli studenti più diligenti, ed è solo per probo senso del dovere, quindi, che sciacquo i panni non nell’augusto Arno, bensì li inzacchero nelle profane pozzanghere della lingua parlata. Chi mi conosce, ben sa che mai e poi mai mi macchierei di turpiloquio, no?
Innanzitutto, il “cazzo” è espressione quasi complementare a “figa”, che a suo tempo avevo tradotto con il polivalente (ma molto meno saporoso) “krass” teutone. Per cui, ci si avvale dell’ammennicolo maschile per una gamma di reazioni che vanno dalla sorpresa (“C! non ci posso credere, Berlusconi è davvero tornato in politica!”) alla scocciatura (“ma no, c., il treno è di nuovo in ritardo”). La scelta fra l’una o l’altro delle gonadi è assolutamente personale, forse regionale. Dalle mie parti è molto più in voga lei di lui, ma basta spostarsi di 50 km, e nel capoluogo meneghino ci si imbatte quasi solo in “minchie” importate dalla Sicilia, che han finito  per fare come i conigli in Australia ed avere il monopolio dell’esclamazioni locali.
Tuttavia, il “c.” non indica, come logica potrebbe suggerire, un bel ragazzo, così come “f” indica una bella ragazza. Per gli uomini la sineddoche non vale, e si ricorre ad un più impensabile “figo”.
Ma anche l’organo maschile è abbastanza versatile, ad esempio in coppia con “volere” e “dire” e accompagnato dal gesto che ci connota un po’ in tutto il mondo (vedi sotto ), è una classica espressione che non si può esattamente tradurre con “Was   für einen Schwanz willst /redest Du”.

Quando si aggettiva, il “c.” oscilla fra qualcosa di positivo (“cazzuto” è qualcuno, pensa un po’, “con le palle”, intrepido e sicuro di sé) e, al contrario, qualcosa di scadente (tutto ciò che è “del cazzo” non ha alcuna afferenza pubica, bensì è semplicemente fastidioso, inutile, imbarazzante. Possono esserci “situazioni del c”, ad esempio). I più fini linguisti, poi, scomodano i “controcazzi” per designare qualcosa o qualcuno di veramente superlativo, per cui il semplice organo risulterebbe troppo dozzinale.
Non mi diletto di psicosomatologia, ma parrebbe che alle nostre latitudini, l’organo sia coinvolto nel pathos, visto che ci si “incazza” (arrabbia), ma anche ci si “scazza”, ovvero ci si annoia o irrita. Chi è “scazzato” non è necessariamente un eunuco (come suggerirebbe la S “privativa”), semplicemente esprime in maniera un po’ meno dandy il male di vivere che altre, più auliche voci, definivano come “spleen”. Probabilmente, lo scazzato in questione sarà poco socievole e auspicherà che chi gli sta intorno si faccia un po’ “i c. suoi”, ovvero badi alle proprie faccende, senza interferire nella sua sfera privata che, si sa, metaforicamente coincide con lo spazio occupato dai gioielli di famiglia.
L’intruso di turno potrebbe subire un bel “cazziatone”, ovvero una ramanzina dai toni piuttosto accesi. E lì, potrebbero davvero essere cazzi. Ora, si noti la bellezza intrinseca del semplice enunciato minimo di scolastica memoria “sono cazzi”. Potrebbe sembrare una semplice frase da manuale di lingua per principianti, ed invece serve un fine conoscitore dell’italica cultura per sviscerarne il recondito significato: quando si intravedono gonadi maschili all’orizzonte, non sono i California Dream Men in libera uscita, piuttosto guai in arrivo.
Se poi tali organi sono pure “amari”, allora altro che il gaio motivetto di Pupo: c’è da correre presto ai ripari. (Forse L. apprezzerebbe questa rima così naive). Del resto, con la semplice particella "non", mi vien da aggiungere che "non ci sono cazzi"(o, essendo a Berlino, ce ne sono parecchi, ma tendenzialmente apprezzano i loro simili): certe espressioni sono proprio intraducibili, specie per i corretti tedeschi.
Direi che la mia quota giornaliera di cazzeggio si è esaurita, dopo aver vergato cotali sublimi righe. Non mi resta che tornare ai cazzi e mazzi quotidiani, fiera di aver contribuito alla promozione dell’idioma patrio, seppur sempre così, un po’ alla cazzo (speriamo, almeno, non proprio “di cane”, visto che tutto ciò che è canino tende ad essere dispregiativo. Del resto, se qualcuno mi rimproverasse di trattare temi troppo raffinati, risponderei che solo "col c." mi darei a qualcosa di più volgarmente ludico).

martedì 23 ottobre 2012

A fil di pagina


Maria, ihm schemckt's nicht (Maria, non gli piace) è il titolo di un libro scritto da Jan Weiler, giornalista del Süddeutsche Zeitung. In 276  scorrevolissime pagine, l’autore racconta del suo peculiare incontro con l’Italia e gli italiani: si è sposato, infatti, con la figlia di un Gastarbeiter originario di Campobasso. Figura chiave dell’intero romanzo (realistico, ma con licenza di fantasia) è Andò, il suocero che all’inizio degli anni ’60 è riuscito, mentendo sulla data della sua abilitazione professionale, a raggiungere la Germania. Stipato nelle camerate di una fabbrica ad Osnabruck, dove le sue qualifiche professionali non contavano nulla, Andò ha imparato il tedesco solo improvvisandosi cameriere, ma non ha mai perso il suo accento meridionale, né ha mai fatto pace con desinenze e genere dei nomi. Istrionico, convinto che Freud abbia plagiato Machiavelli, Andò accoglie Jan in famiglia, il che significa, per il teutone genero, entrare a far parte di un esteso clan famigliare molisano con origini sicule.
Ogni estate si trascorre fuori Campobasso, tra un gelato sul Corso e una partita a scopa con zii, cugini e nonni che sono maestri nell’arte del bluff, mentre le donne spadellano in cucina. Jan impara presto che non ha modo di sottrarsi al ruolo di oca all'ingrasso che Nonna Anna gli ha assegnato: rifiutare l’ennesimo cucchiaio di trippa o non gioire del panettone inviato fin in Germania sarebbe un’offesa irreparabile. Jan, del resto, adora il cibo italiano, anche se non riesce a capacitarsi di come un popolo che sta in piedi a carboidrati possa non soccombere alle leggi di Darwin. Anche dell’incomprensibile morbidezza dei materassi italici Jan non riuscirà mai a farsi una ragione, tanto da dotarsi di un coccodrillo gonfiabile da spiaggia per placare i dolori alla schiena.
Il romanzo è uno sguardo ironico, ma compartecipe, sugli eterni stereotipi sugli italiani e sui tedeschi: Andò in Germania tesse le lodi del clima, della cucina e della forma mentis italiana, ma una volta in patria, non fa che sbandierare la puntualità ed efficienza teutoni, che in Italia ancora mancano. Dal canto suo Jan, che a poker vince senza barare, si ustiona al sole mediteranneo ed è convinto che l'inverno appenninico sia mite,  e scambia la parola “fregna” per “freccia”, sarà pur sempre per i parenti di giù un “Kartoffel”. Dopo l’ostilità iniziale del suocero, orgoglioso e geloso della figlia, Jan impara a stimarlo, fino a diventarne il solo confidente: è a lui che Andò racconta dell’infanzia e dei suoi sogni di riscatto, quando facendo scorribande con gli amici per i vicoli di Campobasso si portava sempre dietro una cartolina di New York, e del matrimonio in Germania all’insaputa dei genitori rimasti in Italia. Con lui Jan impara un’altra lingua: il canonico modello “ricezione-comunicazione” per Andò e tanti italiani non funziona, la pur pragmatica mentalità tedesca incontra quella creativa, ilare, talvolta fanfarona e sconclusionata degli italiani, che sanno sempre uscire, magari con un colpo di genio mascherato da un sorriso, dai grovigli che si creano.
Nel 2009 è stato girato anche un film, che vede Lino Banfi nei panni di Andò. Ma il ritmo piuttosto lento del film, solo a tratti spezzato da qualche boutade memorabile, non ha paragoni con il libro che si legge d’un fiato, magari per un attimo beandosi della complementarità italo-tedesca. In fondo, può funzionare: nonostante la praticità dello pseudocaffé nel bicchierozzo riciclabile zum Mitnhmen, Jan per due pagine celebra la poesia del mescolare un espresso mattutino, aspirandone l’aroma seduti al bancone del bar. E del resto, una delle tante arti retoriche italiche è quella del saper lamentarsi (vedi: del teutone di turno), eppure adattarsi (vedi: affezionarcisi).

giovedì 18 ottobre 2012

Rührei l'èl mangià di rurai

Il suono delle parole esercita su di me sempre un certo fascino. Quando si tratta del tedesco, è un po’ il gusto dell’orrido, di quel masochismo orale con cui presto dovrò cimentarmi sul serio, sistematicamente e senza più semplicemente andando di fiore in fiore come un’ape ebbra di dieresi e gruppi consonantici.
Ed ogni volta che imbatto nello Rührei, non posso che rimuginare fra me e me il suono. In realtà, ad affascinarmi è la combinazione: ü-h-r. Non si tratta di un uovo contaminato dalla splendida regione della Ruhr, ma la H dopo la U allunga comunque il suono in una specie di muggito che graffia la gola, se provate a pronunciarlo, vi sembrerà di avere una motosega in gola.
Infine, non è che l’uovo strapazzato, che qui va molto per colazione e servito sul pane. Improvvisandomi Clerici, che ogni tanto fa bene per l’ego, ecco la ricetta. Ah, letteralmente, è “l’uovo toccato”, per una volta i tedeschi sono più delicati di noi.
Le uova si sbatacchiano in una padella col burro caldo. Poi, per renderle cremose, si va di panna o di versatile quark. Le si tengono mescolate perchè sia tutto uniforme, senza grumi. iL tutto è pronto quando il composto è bello luccicante e ancora leggermente umido. Di solito si integrano, a piacere: pancetta, prosciutto, gamberetti, formaggio, funghi, cipolle, erbe, briciole di pane, pomodori e verdure.
Credo che mia nonna commenterebbe: "Rührei l'èl mangià di rurai". Ci si potrebbe fare un rap.

Ma(h) la sanità?


L’autunno è il mese della prevenzione, anche se non ci sono più stagioni. Così mi sono detta che, forse, dopo un anno solare a Berlino, era ora di trovarsi un cosiddetto “medico della mutua”, giusto per rinfrancare la coscienza e non aizzare contro di me il destino, si sa mai.
Google-maps munita, ho subito trovato il dottor W., che sorrideva biancoperlato dal suo sito: candore ovunque, una ridda di specializzazioni interessanti, inclusa agopuntura, terapia del dolore e la foto di gruppo con tutte le infermiere. Compongo il numero:
“Buongiorno, mi chiamo MF, vorrei fissare un appuntamento”
“è una nuova paziente?”
“sì”
“mi spiace, siamo pieni, non accettiamo nuovi pazienti”.

Tu-tu-tu. Delusione. Dalla foto le infermiere (o “sorelle”, come le chiamano qui) avevano un’aria molto più accomodante. Pazienza, provo con la dottoressa S., sito meno posh, ma chiaro e accessibile.
“Non accettiamo nuovi pazienti”.

La risposta si ripete quattro volte, mi do un’ultima chance e poi decido che mi terrò la coscienza sporca e incrocerò le dita perchè non mi vengano malanni.
Le recensioni su internet per la dottoressa. A., che di nome osa fare Heidrun, non sono granché. Ma è fuori casa, quasi potrei sbirciarle in ambulatorio dalla mia finestra. Oh, miracolo! Mi accetta, dopo 3 giorni passerò per una visita.
Prima dell’ora X mi sembra di essere tornata al catechismo domenicale pre-confessione: ripasso la mia  (per fortuna) poco sapida storia clinica, penso ad un efficace resumé tedesco e provo a sorridere biancoperlaceamente come il W. del sito di cui sopra. Facevo lo stesso quando mi spedivano a forza a raccontare al prete tutti i miei peccati. Vorrei che la Heidrun mi indirizzasse presso qualcuno che possa prendersi cura dei guaiti della mia schiena, e presso un allergologo.
Entro nella praxis e una Schwester in bluette mi accoglie sotto un arcata sopraccigliare curatissima e un velo di ombretto indaco. Mostro subito la ricevuta del quartale (in Germania si paga una visita ogni 3 mesi e poi si è a posto per quell’arco di tempo), ma l’indaco-marinaretta mi chiede comunque 10 E. Sbatacchio le ciglia, tanto non potrò mai competere con le arcuate e truccate sue. Non fa alcun effetto.
“mi scusi, ma sta scritto qui, ho pagato”.
“Signora, doveva farsi fare una Überwesung per una visita qui”.
Incomprensione. Come avrei potuto un mese fa, durante la visita di routine da uno specialista, sapere che avrei voluto passare per un controllino casual dalla Heidrun? Il lucore delle pareti inibisce le mie capacità di dibattito, e le chiedo se si accontenta di un gruzzolo in moneta.
Mi installo, poi, scocciata, sulla sedia. Leggo il mio fido libro e ogni tanto ripasso mentalmente: schiena-asma allergico-mi consiglierebbe-guardi-come-sorrido-bene. Mezz’ora dopo l’orario del mio appuntamento, la dott.ssa Heidrun si palesa. Casco da paggetto color polenta sbiadita, labbra che sono giusto una riga per il adempiere al minimo sindacale richiesto, asciutta.
Mi spiace, non posso più ricevere”.
Ri-sbatacchio le ciglia. Di nuovo, non fa alcun effetto. Avevo o no un appuntamento? Sì, ma si è fatto tardi, la Heidrun indica l'orologio.
Il casco sbiadito mi si avvicina e chiede, senza troppa verve “era per un problema grave?”
“mah guardi dottoressa, non saprei a che grado di gravità stia la coscienza sporca”…ovviamente penso solo fra me e me. Mormoro “no”.
“Allora venga domani, o presto, oppure si faccia fissare un altro appuntamento”.
Ri-ri-sbatacchio le ciglia, attonita. Forse non ho capito bene, mi sta solo dicendo che farà una pausa caffè e poi riprenderà con le visite. Invece no, anche una coppia vicino a me viene rispedita al mittente. Esco imbufalita, una volta all’aria aperta chiamo il povero, innocente B. e inveisco contro i medici crucchi. Per una volta, sfodero l’orgoglio della sanità regionale mia.
Ogni volta che chiedo a qualche amico tedesco come funziona il tutto, ottengo risposte diverse. Perchè mai per andare dal medico della mutua ho bisogno di una prescrizione?
Sgrunt. Fortuna che, siccome non ci sono più stagioni, l’autunno è in stand by. Gironzolo per le strade e finisco al Media Markt: vado in avanscoperta per il prossimo investimento in una stampante. Dopo un sopralluogo distratto, rimuginando ancora sul nervoso ambulatoriale, trotterello verso il reparto delle sedie massaggiatrici. Sono decisa a provarle tutte, specie quelle più costose, che promettono shiatsu, rolling, opzioni calore. La commessa mi guarda torvo, ma è mio diritto dopo il torto subito.
Quando mi alzo, ho lasciato qualche capello chiaro sulla sedia nera. Ebbene, l’autunno oltre che il mese della prevenzione, è quello della muta. Se ne facciano una ragione.
Dovendo comprare un paio di viveri sostanziali, faccio un ultimo balzo al supermercato. Come sempre quando il mio ego vibra ferito nei suoi diritti fondamentali, finisco per perdermi nel reparto cioccolati. I Ritter Sport sono a 85 c, buoni, pratici, quadrati. Soprattutto quadrati, si infilano sornioni in tasca e poi si sciolgono in bocca.
La nuova Winteredition, con tanto di pupazzo di neve ammiccante, mi seduce subito: “mandorle caramellate”. È un attimo, e quadretto di grassi idrogenati e zuccheri è mio. Il blocchetto funziona a dovere: il rilascio di endorfine è proporzionale all’harakiri che compiono i miei denti e il mio girovita, ma per ora dimentico le ingiustizie del mondo.

sabato 13 ottobre 2012

Sole

Il sole a Berlino, di questi tempi, è come un’oasi fresca nel deserto. Per cui stamattina, appena sveglia, non me lo sono fatto sfuggire, e con la scusa di sbrigare qualche ordinaria commissione mangereccia, mi sono messa in marcia, testa alta quasi a bermeli, i raggi. Ho lasciato la bici a riposare, per oggi, per prolungare il contatto col sole, mi sentivo una lucertola in libera uscita. Le ho promesso, tuttavia, di tornare con un cavalletto nuovo fiammante, per riscattarla, dopo mesi, dall’andatura claudicante.  
Andando a caso mi sono imbattuta, finalmente, in una Bäckerei artigianale. Di panetterie industriali ce ne sono innumerevoli in città: Kemps, Crobag, Havel e che so io. Tutte col solito cappuccino che sa di risciacquo della lavastoviglie (non so se l’abbiate mai provato, il risciacquo, intendo), e dolci con la glassa plastificata e un sapore medio tutto uguale. Ora,  io coi dolci non ho né arte né parte: se non altro perché millantando di preparare un tiramisù da leccarsi i baffi, ho propinato ai miei coinquilini una variante molto eterodossa. Mi ero giusto scordata un dettaglio: il mascarpone. In sostanza, gli ignari, ma ingordi coinquilini si sono sbafati un budino di uova crude, cacao e savoiardi del Lidl. Non pare abbiano accusato salmonella.
Comunque. Ogni tanto, la mattina, il Naschkatze che è in me non miagola più, ringhia. Qui il goloso, di fatti, è un “gatto che spizzica”. Orbene, inseguendo l’imperativo categorico katziano, sono finalmente capitata in una botteguccia anonima, dall’insegna sbiadita. Il turco che la gestiva si divideva tra bancone poco rifornito e forno sul retro. Perfetto. Niente Qual der Wahl (tortura della scelta), pochi gusti per i croissant e qualche altro dolce, alcuni turchi, altri international. Agguanto il mio Marzipancroissant e dazu un cappuccino. Non è proprio da manuale, ma le mie papille hanno un momento di estasi al sapore di caffè vero.
Pagato con pochi spiccioli il buon incipit di giornata, la mia fortuna è sfacciata. A fianco della Bäckerei c’è una libreria di seconda mano. Una stanzetta afosa, senz’aria, dove si affastellano libri ovunque, non ci si può girare senza urtarne uno. Si trovano romanzi rosa in edizione economica accanto a edizioni illustrate di Dostoevskij, poi c’è il reparto “Berlino” con guide ed itinerari scritti 50, 60, 100 anni fa. I classici della letteratura tedesca sono in versione senza copertina, con caratteri gotici e note a margine in matita, talvolta, vecchi manuali scolastici fanno capolino dagli scaffali insieme a guide di cucina.
La mole di libri attutisce i rumori del traffico sulla Greifswalder a pochi metri. Non so quanto sono restata a rovistare tra gli scaffali, in un tetris di volumi senza troppo ordine. Il libraio fa lo stesso in qualche angolo sul retro, non sembra curarsi delle mie pericolose giravolte zainomunite che potrebbero far crollare le pile di libri sul pavimento. A occhio non arriva ai 40 anni, dolcevita nero d’ordinanza, ciuffo scuro su occhio chiaro, smilzo. Sarà l’ambiente, ma mi sembra che abbia lo sguardo perso, che rincorre qualche fil rouge della sua immaginazione, insomma che non potrebbe avere altro aspetto, se non quello che ha, come fosse un dandy appena abbozzato dalla penna di un Wilde arrugginito.
B. è con me a rastrellare libri, lo convinco a intascarsi “Il nome della Rosa” e il libraio intavola una discussione sullo stile di Eco. Fuori l’autunno sembra tergiversare, le foglie già rosse e vorticanti nell’aria per oggi sembrano fuori luogo, con il cielo terso e una luce troppo intensa per essere autunnale. Per un euro e 20 ci portiamo a casa una borsa piena di libri, alcuni magari resteranno a far polvere per anni, altri probabilmente non riuscirò a finirli per ostacoli linguistici. Eh sì, perché metà dei libri in vendita costano 1 E al chilo: il dandy li impila su una bilancia da cucina e fa i calcoli a matita su un pezzetto di carta, quasi fosse un profumiere con preziosi ingredienti, chino all’ombra della sua bottega.
Ma mentre il fruttivendolo per strada cerca di appiopparmi imperdibili zucche di stagione, non posso che sorridere al fine settimana che mi strizza l’occhio promettente. Uscirò più tardi per mantenere la promessa fatta alla bici.

martedì 2 ottobre 2012

prima di andare nel lettone

Cercando di vincere Morfeo, pensavo a Putin.
E non perchè quest'astro della democrazia mi stimoli l'adrenalina, quanto piuttosto ho avuto un'epifania di quelle che grattano i precordi e fan emergere la nostalgia di casa.
Pensavo al lettone di Putin. Ogni volta che mi ci imbatto, leggo il lèttone.Guardo il mio ampio letto teutone, e mi immagino un cicisbeo baltoslavo che  presta i suoi servigi a Berlusconi.  E la scena con la D'addario diventa ancora più raccapricciante.
Così mi sarà da monito, quando in tedesco per dissertare sull'afa dimentico la ü e finisco per lamentarmi dei gay (schwül / Schwule). E a Berlino l'equivoco potrebbe fare terra bruciata delle mie relazioni sociali.
Del resto da piccola mi ostinavo a volere il pandoro della Baùli, e alle superiori i miei professori del Regno delle Due Sicilie mi han sempre fatto credere che la tripartizione dei poteri fosse un'idea di Monstequiè e che il pathos dello Sturmmeunddranghe fosse opera di Gòte.
Il mio lettone mi fa l'occhiolino e penso che se stessi scrivendo in francese, mi toccherebbe traslitterare Poutine: già mi vedo energumeni del KGB tascinarmi in cella per aver dato della Minetti all'augusto presidente.
Mi converrà ricorrere a scongiuri transfrontiera: toccherò legno e ferro, in mancanza degli attributi che nella mia città sono l'emblema del Colleoni (e fate chiedere ad una tedesca in fregola turistica, "scusi, dove sono i colioni da toccare per la fortuna?")

domenica 30 settembre 2012

un bestiale colpo di fulmine

L'amore a prima vista esiste.
Ho sempre avuto uno spiccato gusto per l'asimettrico, l'irregolare, l'ibrido e sono stata folgorata da un porcellino oviparo ricoperto di lanuggine.
Dove l'ingegneria genetica ancora non è arrivata, da tempo è arrivata la lingua che, come si sa, è più lenta solo forse del pensiero, ma essendone l'ineluttabile estrinsecazione, è piuttosto rapida. E, spesso, quasi ineffabile nella sua capacità di comunicare immagini e suggestioni.
Ed è così che ho scoperto "die eierlegende Wollmilchsau". Ovvero, una scrofa che produce latte, lana e depone pure le uova.
Sfogliando il mio  bestiario mentale ho trovato solo la pallida "gallina dalle uova d'oro", ricorrendo poi alla saggezza popolare sono passata per "la botte piena e la moglie ubriaca". Ma direi che la perfezione dell'espressione crucca è inarrivabile.
L'animale pare non essere mitologico, piuttosto di ben più recente conio. La paternità più accreditata punta al 1959, quando lo scrittore Ludwig Renn (oppositore del nazismo, cultore dell'esperanto ed infine noto intellettuale della DDR) usa l'espressione in una sua poesia "Der Kampf auf das eierlegende Woll Schwein". Qui l'animale è un "maiale" e non ha ancora all'attivo la mirabilia del produrre latte.
Come quelle del Signore, anche le vie della lingua sono infinite, e non si sa con certezza come la creatura sia passata nel gergo militare, per indicare armi versatili e molto efficaci. Oggi, siccome già del maiale non si butta via niente, e ancor di più in Germania, la scrofa di cui sopra  indica un qualcosa o un qualcuno che sa fare tutto, che ha solo vantaggi. Un all-in-one che, ahimé, esiste solo a livello lessicale.
Augurando a tutti di imbattersi nella propria scrofa-da-latte-e-lana-uova-deponente, a me non resta che usare la mia cartina da tornasole linguistica preferita: il mio coinquilino D., da me e tutti i miei io unanimamente proclamato tedesco medio e rappresentativo della categoria. E sì, mi conferma che al lavoro, per esempio, tutti sono alla ricerca della eierlegende Wollmilchsau.
Per avvistamenti, contattatemi in privato.

sabato 29 settembre 2012

cronache da un WG

Da ormai 6 mesi condivido tetto ed affitto con D., brandeburghese doc. E, al di là di ogni mia più rosea aspettativa, l'inquilino si è dimostrato inesauribile fonte per i miei rimuginamenti pseudoantropologici.
La nostra convivenza è da sempre scandita da ritmi inalterati: ci incrociamo la sera durante la sua pausa sigaretta, sul balcone. Lui scenera sui passanti ed io mi dondolo sul corrimano, discorriamo del tempo infame, degli stracci che non strizzo abbastanza energicamente, osserviamo la composita fauna delgi avventori della birreria sotto casa, così vicini che quasi potremmo accarezzarne le calotte craniche.
Col cambio stagione c'è un nuovo, avvincente dibattito in corso: come evitare che l'autunnal ricambio del mio crine blocchi gli scarichi della vasca. Ci scambiamo i consigli delle reciproche madri, valutiamo i costi dei detersivi appositi, misuriamo la grandezza dei filtri per lo scarico. Certo, rasarmi a zero sarebbe la soluzione migliore, D. si sentirebbe meno solo nell'impetoso avanzare del suo deserto tricologico. Per ora, salomonicament,e ognuno ha comprato un detersivo per gli scarichi, etichetta canta: speciale per gli ingorghi di capelli.
Il meglio, D. lo sfoggia quando è ubriaco. In realtà, questo succede con cadenza almeno bisettimanale, ma la fenomenologia della ciocca non sempre mi dà le stesse soddisfazioni. Spesso si manifesta con una cavalcata porta-bagno-letto che dura meno di 30 secondi totali, con un "buona notte" buttato lì a salvare le apperenze.
Alle volte, tuttavia, i miei pazienti appostamenti sul suo tragitto (ho il favore della posizione: la mia camera sta tra il bagno e la sua) vengono premiati.

Qualche giorno fa, peraltro con un amico in basita diretta Skype, D. è entrato saltellando e sventolando uno stecchino. "Miriam, ho qui il tuo test di gravidanza. Haha, lo chiamerai D., vero, anche se è femmina?" Ci ho messo un po' a capire che quello che mi mostrava come trofeo era, in realtà, uno di quegli stecchini per mescolare il caffè take away, qui particolarmente lunghi per via delle secchiate che si tracannano. Ho provato a convincerlo che il nostro WG sarebbe rimasto a due, ma non c'è stato niente da fare.
Oggi è tornato col solito occhio sinoforme e l'andatura strascicata, sintomo inequivocabile di ciocca socievole, quella che coinvolge anche me. Stavolta sotto il naso mi sventola un biglietto da 20. Paghiamo le bollette in anticipo, e pare che applicando pedissequamente i suoi teutoni consigli, io abbia contribuito all'abbattimento del consumo di energia elettrica.
Subito dopo, si festeggia con un bicchierozzo di vodka pura, che fingo svogliatamente di sorbire mentre lui riesuma degli album di foto, ognuno con data, luogo, ora e non solo.
Eh sì, D. è quanto di più metodico io conosca. Perciò conserva biglietti, scontrini, giocattoli, pupazzi, qualunque cimelio di qualunque età ed occasione. Stasera la pausa sigaretta si preannuncia interminabile, ed io che volevo godermi una serata tra me e il mio nuovo libro.
Si comincia con gli scatti di D. appena nato: minuscole foto in bianco e nero targati DDR, per poi passare in rassegna il primo Lego, il primo giorno di scuola, le vacanze in Bulgaria ("avevo 7 anni ed è stata l'ultima volta che ho preso l'aereo", mi sottolinea, fiero di trascorrere le vacanze solo in patria, ormai), la maglia del Bayern Munchen (nel frattempo veementemente rinnegata).
In vodka, si sa, veritas. Così quando sfoggio uno dei commenti da copione "ah, ma che begli occhi azzurri ha tua sorella", D. si sente in dovere di controbilanciare cotal vezzoso complimento raccontandomi che la sorellona trentenne ha perso 30 kg e poi si è ritoccata quanto era rovinosamente ceduto con laute dosi di silicone. Glisso signorilmente sulla sua caduta di stile, pregando che Morfeo abbia presto il sopravvento su di lui.
Ma oggi è la mia giornata fortunata: oltre che coinquilina risparmiosa, guardandosi le dita dei piedi, D. mi confessa che sono davvero una cara compagna di appartamento. Al netto della mia burrascosa relazione con il fornello elettrico, della mia incomprensibile venerazione per il parmigiano e del mio tuttora titubante accento brandeburghese. E' una dichiarazione, non c'è dubbio.

Così mi sento in dovere di ricambiare, e lodo la sua minuziosità nell'innaffiare ogni pianta con il millilitraggio giusto (ogni pianta ha un'etichetta apposita), l'inarrivabile lungimiranza con cui tiene uno stock di lampadine sempre pronto, il coraggio con cui riesce a cibarsi di spaghetti in lattina. Il mio elogio non può che soffermarsi sulla regola per cui ogni ospite deve portare in omaggio almeno un rotolo di carta igienica per placare la sua fobia di rimanerne senza. (Evito di confessargli che io ne esento i miei, di ospiti, fiduciosa che avere un Kaiser's aperto tutti i giorni fino a mezzanotte dall'altro della strada e un 24h/24 sotto casa possa scongiurare l'apocalittico scenario dell'assenza di rotoli al momento del bisogno).
Il mio sonetto d'amore raggiunge vette encomiastiche quando gli faccio notare che da ubriaco è il miglior aspirapolvere mai brevettato: ha lo strambo vizio di adocchiare le briciole più nascoste, e si ostina a volerle raccogliere tutte.
Le reciproche dichiarazioni volgono al termine quando D. decide che non ha le forze per attendere che io finisca la mia vodka, e magnanimamente se la ingurgita lui.
Io torno a meditare sulla rilevazione shock che mi ha fatto: oggi, al bar, per una scommessa si è bevuto un milkshake con wurstel e cipolla, tiepido.
Mi rassegno. è una battaglia persa in partenza: non potrò mai dargli le soddisfazioni che mi regala lui.
Il giorno dopo, al duro risveglio: sulla lavagnetta dove ci lasciamo messaggi (magnetica: non si deve ricomprare nè carta, nè gesso, nè pennarello): "merda di castoro x3" e un disegno esplicativo.

lunedì 24 settembre 2012

Altars

One lands on an altar. There are many ways to get to altars, and many different altars. Power, ambition, money, love. One can climb on an altar, purchase it, get it as a gift, be thrown onto it.

One keeps clinging on the alter just out of fear. The magnificent statue of whatever God glances at the floor and shivers. Just one creak and the statue will smash to the ground, the precious, silky marble scattered in countless splinters which no one will ever be able to put back together.

Our life is a but an up and down of altars. The word derives from “to feed”, the desk where human beings offered their Gods a sacrifice, mostly other animals if not other human beings. Blood-thirsty Gods. Or it derives from “high”, where we now place ourselves, equally blood-thirsty and merciless.

How breathe-taking would it be, to blow all altars at once, to grin at the clash of supposed greatness turned into dust of greatness.  And then walk through the ruins realizing we cannot even enjoy our echo, as there would be nothing, but destruction.