Il mio studente L. è violista all’opera:
conosce a memoria “Le nozze di Figaro” e, quando arranco sulle scale per andare
a lezione da lui, con ancora evidenti i segni del mio flirt toccata e fuga con
Morfeo, mi accoglie con “ero ansioso di vederti” e poi infila qualche rima
forbita. Poco dopo, però, gli spiego che “augello” è il prosaico “uccello”, e
scopro che in romeno (la sua lingua madre), si traduce con “passera”. Al che
urge una nota ornitologica e un excursus fra passere e uccelli. Il che mi
porta, inesorabilmente, a ricordarmi che avevo promesso all’altra metà del
cielo un post ad hoc, dopo la disputatio
ficae.
E per non sottrarmi alla par condicio,
provo a cimentarmici (volevo proprio usare questa parola cacofonica, oh sì).
Dunque, cosa sia il “cazzo” è
abbastanza risaputo. Prima o poi, tutti gli studenti germanofoni cadono sull’uccello
(riposa in pace, Mike), cercando di tradurre “Katze” (gatto, che suona “cazze”). Ormai reagisco con aplomb
british e correggo in automatico, senza colpo ferire, la distinta 50nne di
turno che mi compita tutta concentrata “io amo i catzi e ho un catzo a casa”.
Al solito, sono le mille
accezioni accessorie a sfuggire anche agli studenti più diligenti, ed è solo
per probo senso del dovere, quindi, che sciacquo i panni non nell’augusto Arno,
bensì li inzacchero nelle profane pozzanghere della lingua parlata. Chi mi
conosce, ben sa che mai e poi mai mi macchierei di turpiloquio, no?
Innanzitutto, il “cazzo” è
espressione quasi complementare a “figa”, che a suo tempo avevo tradotto con il
polivalente (ma molto meno saporoso) “krass”
teutone. Per cui, ci si avvale dell’ammennicolo maschile per una gamma di
reazioni che vanno dalla sorpresa (“C! non ci posso credere, Berlusconi è davvero
tornato in politica!”) alla scocciatura (“ma no, c., il treno è di nuovo in
ritardo”). La scelta fra l’una o l’altro delle gonadi è assolutamente
personale, forse regionale. Dalle mie parti è molto più in voga lei di lui, ma
basta spostarsi di 50 km, e nel capoluogo meneghino ci si imbatte quasi solo in
“minchie” importate dalla Sicilia, che han finito per fare come i conigli in Australia ed avere
il monopolio dell’esclamazioni locali.
Tuttavia, il “c.” non indica,
come logica potrebbe suggerire, un bel ragazzo, così come “f” indica una bella
ragazza. Per gli uomini la sineddoche non vale, e si ricorre ad un più
impensabile “figo”.
Ma anche l’organo maschile è
abbastanza versatile, ad esempio in coppia con “volere” e “dire” e accompagnato
dal gesto che ci connota un po’ in tutto il mondo (vedi sotto
), è una classica espressione che
non si può esattamente tradurre con “Was
für einen Schwanz
willst /redest Du”.
Quando si aggettiva, il “c.”
oscilla fra qualcosa di positivo (“cazzuto” è qualcuno, pensa un po’, “con le
palle”, intrepido e sicuro di sé) e, al contrario, qualcosa di scadente (tutto
ciò che è “del cazzo” non ha alcuna afferenza pubica, bensì è semplicemente
fastidioso, inutile, imbarazzante. Possono esserci “situazioni del c”, ad
esempio). I più fini linguisti, poi, scomodano i “controcazzi” per designare
qualcosa o qualcuno di veramente superlativo, per cui il semplice organo
risulterebbe troppo dozzinale.
Non mi diletto di
psicosomatologia, ma parrebbe che alle nostre latitudini, l’organo sia
coinvolto nel pathos, visto che ci si “incazza” (arrabbia), ma anche ci si “scazza”,
ovvero ci si annoia o irrita. Chi è “scazzato” non è necessariamente un eunuco
(come suggerirebbe la S “privativa”), semplicemente esprime in maniera un po’
meno dandy il male di vivere che altre, più auliche voci, definivano come “spleen”.
Probabilmente, lo scazzato in questione sarà poco socievole e auspicherà che
chi gli sta intorno si faccia un po’ “i c. suoi”, ovvero badi alle proprie
faccende, senza interferire nella sua sfera privata che, si sa, metaforicamente
coincide con lo spazio occupato dai gioielli di famiglia.
L’intruso di turno potrebbe
subire un bel “cazziatone”, ovvero una ramanzina dai toni piuttosto accesi. E
lì, potrebbero davvero essere cazzi. Ora, si noti la bellezza intrinseca del semplice
enunciato minimo di scolastica memoria “sono cazzi”. Potrebbe sembrare una
semplice frase da manuale di lingua per principianti, ed invece serve un fine
conoscitore dell’italica cultura per sviscerarne il recondito significato:
quando si intravedono gonadi maschili all’orizzonte, non sono i California
Dream Men in libera uscita, piuttosto guai in arrivo.
Se poi tali organi sono pure “amari”,
allora altro che il gaio motivetto di Pupo: c’è da correre presto ai ripari. (Forse L. apprezzerebbe questa rima così naive). Del resto, con la semplice particella "non", mi vien da aggiungere che "non ci sono cazzi"(o, essendo a Berlino, ce ne sono parecchi, ma tendenzialmente apprezzano i loro simili): certe espressioni sono proprio intraducibili, specie per i corretti tedeschi.
Direi che la mia quota giornaliera
di cazzeggio si è esaurita, dopo aver vergato cotali sublimi righe. Non mi
resta che tornare ai cazzi e mazzi quotidiani, fiera di aver contribuito alla promozione
dell’idioma patrio, seppur sempre così, un po’ alla cazzo (speriamo, almeno,
non proprio “di cane”, visto che tutto ciò che è canino tende ad essere
dispregiativo. Del resto, se qualcuno mi rimproverasse di trattare temi troppo raffinati, risponderei che solo "col c." mi darei a qualcosa di più volgarmente ludico).
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