lunedì 15 aprile 2013

Mai dire dieresi


Con la dieresi ho sempre avuto un rapporto controverso. Per quanto allenata dal dialetto dei nonni, che in quanto ad ö ed ü non è certo parco, ogni tanto la mia lingua si impigrisce e si inceppa su quei due puntini. 

Se poi c´è lo zampino di qualche T9, per cui tu cerchi l´indirizzo Pfalzerstraße, e invece la meta sta a Pfälzerstraße, solo quando il magnanimo passante di turno sfodera uno smartphone ed è a sua volta molto smart, l´inghippo si risolve. 

Il mio più recente scontro frontale con quei due puntini che promettono solo di modificare il suono di una vocale:

Io “ho bisogno di busen
J “scusa?”
Io “ma sí, in questo periodo voglio busen, contro la tristezza”
J “forse intendi büßen?”
Io “bah, sí, quello che si fa in chiesa”
J “…”

I puntini si interpretino come “perplessitá teutone con una risata che rimane a mezza bocca perché non sa se è politicamente corretto ridere o meno”. Ovvero: la dieresi come catalizzatore sociale italo-crucco.
Eh sì, perché “Busen” è seno, il suo quasi omofono ed omografo con la Umlaut, invece, è il verbo “espiare”. Quindi ho ripetuto di aver bisogno di Holz vor der Hütte, ovvero legna davanti alla capanna, come indicano qui una misura di davanzale abbondante. Da tenere a mente soprattutto per anime pie, affinché non esordiscano in confessionale come esordirebbero da un chirurgo estetico.

Scivolone analogo, tra dieresi e scollature, è quello fra “Brust” e “Bürste”, per me ahimè recidivo.

Io “ti consiglio il museo di Otto Weidt: piccolo, gratuito e interessante. Un piccolo Schindler di Berlino, che nascondeva famiglie ebree nella sua fabbrica di Brüste”
N: “fabbrica di cosa?”
Io: “una fabbrica di Brüste, prodotto piuttosto richiesto anche nel III Reich”.

Bürste è la spazzola, Brust è sempre il seno. Mio malgrado, però, ho forse fatto guadagnare al museo incuneato in uno degli Höfe sulla Rosenthalerstraße un visitatore in più. E quando si aggirerà in cerca di protesi di seni, forse sorriderà alla mia incallita avventatezza linguistica.