giovedì 7 febbraio 2013

I gatti sceglierebbero Whiskas, e “Martin Lutero alloggerebbe qui”


I gatti sceglierebbero Whiskas, e “Martin Lutero alloggerebbe qui”, come pubblicizza il Best Western. Dalla città dove è conservata la maschera funeraria di quel Martino che tanti grattacapi causò all’Europa, ho passato 3 giorni in quella dove, tra un colpetto di chiodo e l’altro, tutto ebbe inizio. Wittenberg è una cittadina di 40.000 abitanti stile parco a tema intorno al buon Lutero, e ad onor del vero si chiama Lutherstadt Wittenberg. 


Poco poterono secoli di Controriforma: nemmeno ricordare che il  vero nome del cosiddetto riformatore era “zoccola” (Luder), o diffondere la vulgata secondo cui le 95 tesi furono concepite in un vespasiano (ancora visibile nelle fondamenta del monastero di Lutero): oggi questo paesotto senza grande charme è meta di pellegrinaggio sin dal Nord America. Certo a Lutero e ai suoi eredi i santi e la Madonna non sono mai garbati molto, e così il centro cittadino ruota intorno alla vita e alle opere di chi (insieme a The Man) diede il via a mille nuovi religioni (come piaceva ricordare ai cattolici, il destino delle Chiese riformate pareva essere quello di suddividersi all’infinito in unità sempre più sparute). 


Causa della mia gita fuoriporta (sempre di Sassonia Anhalt trattasi) la cosiddetta Winter School, una tre giorni di intensi seminari accademici e altrettanto intenso sbafare a spese dell’istituto cui afferiamo. A caval donato, si sa, non si guarda in bocca, così passi se qualunque cosa ci arrivi nel piatto sguazza in grasso liquido di non precisata natura. Tutto riluce di Maggi, Knorr e Fix und Frisch, e lasciare nel piatto gli avanzi non servirebbe a molto, perché il sospetto è che quanto non si ingolla al momento venga riproposto nella zuppa del giorno dopo


Alloggiamo alla residenza universitaria “Leucorea”. Wikipedia può così provare a convincermi che fu il capriccio classico d’aver voluto ribattezzare “montagna bianca” (Wittenberg) con un tocco di grecismo: a me il nome ricorda solo la quasi omofona e omografa malattia. L’aria è quella di un ospedale austero, o forse sono i fumi della digestione, e all’esterno una serie di pannelli ricorda i nomi di chi transitò nei gloriosi ranghi dell’università fondata nel 1502. Certo nessuno può brillare più dell’idolo di casa, ma zompettando fra i nomi si ritrova Giordano Bruno, che forse avrebbe fatto meglio a non tornare a più focose latitudini, ma anche Anton Wilhelm Amo, primo africano in un’università europea. Sulla mappa d’Europa appesa all’ingresso, uno sticker dell’eroe di casa troneggia inghiottendosi tutta l’Europa e mi pento di non avere con me una macchina fotografica. Mentre saggio quanto regge la colla, la signora che distribuisce le chiavi delle camere mi ammonisce di lasciare come trovo. Insomma, la mia matrice papista dovrà rassegnarsi, almeno per un po’, alla vittoria senza campo del luteranesimo. 


Nel pugno di metri lungo cui si snoda il centro, oltre a delle statue, anche la casa di Melantone (a me è sempre piaciuto di più il suo cognome originale, così mi è sempre sembrato a metà fra un succo o, in latino o crucco, un compare di Tonio Cartonio) e l’atelier dei due Cranach, pittori ufficiali della Riforma. Purtroppo non riusciamo a farci un salto, resteranno in agenda per una puntata futura, magari senza bufera di neve. 
Quanto alla chiesa della discordia, ahimè, non solo non è una gran beltà, ma è tutta ingabbiata in transenne e impalcature. Nei pochi momenti liberi, tentando una digestione ambulante, proviamo a più riprese un’incursione, ma non c’è niente da fare: non ci sarà concesso vedere la tomba della star locale. Tuttavia, seppur la combinazione spatzle con brasato e raffica di presentazioni accademiche un po’ mi annichilisce, non posso che fermarmi qualche secondo davanti al portone, dove le tesi un tempo affisse sono state riprodotte. Per un attimo penso al sogno dell’unità di fede spezzato, rincorso per almeno due secoli a suon di guerre, rivolte, roghi, concili, propaganda, e per quanta umanità quella porta tutto sommato senza pretese è stata fatale. È solo un secondo, la collega cinese mi spiega qualcosa sulla falange del dito di Buddha spostato in un nuovo tempo a Xi’an per poter raddoppiare il biglietto d’ingresso, e torno a crogiolarmi nell’eurocentrica illusione della tolleranza.


Del resto, quando cercherò di ricordarmi di Wittenberg, penserò piuttosto all’unico altro vanto della cittadina: il pub dove lavora il miglior barman di Germania, ovviamente si chiama Martin (Kramer, però). Il pub si chiama “Bitter-süß” (dolce-amaro), come lo sguardo che getto sulla statua dell’ex suora Katharina von Bora. Sulla via della stazione incrocerò di nuovo un cartonato di suo marito, stavolta che regge l’insegna di una birreria: provo ad immaginarmi San Francesco che fa da consulente alle guide del Gambero Rosso e poi torno, mestamente, alla mia lotta personale contro la triade Maggi-Knorr-Fix und Frisch.

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