sabato 18 agosto 2012

Afa

L'aria è liquida. Bollore soffuso che strangola ogni tentativo di movimento. La pianura si contorce ai miei piedi, macchie gialle di sete e fabbriche che con le unghie cercano di ignorare i numeri della crisi. Le feste dell' unità si confondono con quelle dell'orgoglio padano, le piazze deserte ripiangono gli scolari, loro rimpiangono le vacanze ormai quasi finite. Davanti a me, 3 bottiglie di acqua, un solo sorso ancora supersite, lo zaino già pronto, il letto lasciato disfatto per l'ultima notte, in sottofondo i telegiornali che si sentono in dovere di dissertare di creme solari, prove costumi e rientri col bollino rosso. Quest'anno forse non c'è un flirt più patinato di altri, ma perlomeno a protestare contro Putin sono tre ragazze tutto sommato carine e già proclamate Playboyabili.
Una settimana d'ingrasso, di relax, di vecchi amici. Tempo cristallizzato, un salto in quel che era proprio così meno di un anno fa, eppure no. Alcune facce si sono sbiadite sotto il sole cocente, di altre mi brucia la mancanza, alcune sono restate a Berlino, altre incrociano la mia rotta padana solo di striscio, grazie alla tecnologia. Schegge di storie, pettegolezzi che ormai chiamo gossip, i dossier di ogni amico e conoscente si aggiornano nel mio archivio confuso.
B. ha messo piede in Italia per la prima volta: niente Garda See, Rimini o una temeraria discesa in Sicilia. L'ha accolto un anonimo paesino della Bassa Bergamasca, occhi critici e lingue solo italofone. E' entrato ufficialmente- consciamente?- nella Famiglia, il patto di sangue firmato al cospetto di torme di zanzare: mancata disinfestazione, la cassa comunale piange e i venditori di zampirone tirano un sospiro di sollievo.
Una settimana è passata, corro verso la fine di un capitolo e sono inchiodata nell'immobilità. Boccheggio e non riesco a pensare. Era più o meno lo stesso lo scorso agosto, quando rigiravo fra le mani un biglietto di sola andata per Berlino. Un road trip della California, la prima volta oltre le colonne d'Ercole d'Europa, risparmi e mance per il viaggio che avrebbe segnato la fine dell'era da studentessa.
Faceva caldo, allora quasi come oggi, eppure i miei pensieri vorticavano su se stessi in un'apparenza di movimento, restando sempre immoti e logorandosi in un girone infernale di autocommiserazione.
Oggi non è la laurea fresca di conio il traguardo che lascio, ma un espatrio che sembra aver preso forma, che da un salto nel vuoto per appagare le mie velleità da Alex Super Tramp, ha lentamente, ma inesorabilmente, preso le sembianze di un trasloco vero e proprio, timbri e carte a sancire un distacco, una tacca sul mio personale blocco notes di scarabocchi che chiamo appunti.
Il calendario vorrebbe che aspettassi un altro mese per finger di trarre bilanci, ma da sempre rinnego la professione paterna e combatto l'agonia dell'afa provando a pensare.
Sono arrivata a Berlino con in mente un'estate spettacolare: la scusa di studiare il tedesco mi aveva lasciato in corpo la voglia di provare a ghermire l'anima di questa città, l'anima sporca, caotica, cheap, senza sole che mi aveva stregato. Carlos mi aveva prestato a tempo indeterminato la sua Graziella smunta, un'amica di Julia mi aveva lasciato la sua stanza mentre se ne andava per un safari in Kenya. Internet mi aveva procurato qualche interviews e un lavoretto immediato: in un'ora di pedalata (facendo attenzione ai freni a pedale) arrivavo a Weissensee e per un paio di settimane mi sono tramutata nell'incubo dei rivenditori di caldaia dello Stivale. Si chiama "Markforschunginstitut", un paio di cuffie, un microfono e un pc per avere i primi movimenti in attivo sul conto tedesco appena aperto.
Poi il grande balzo, una sedia con una scrivania in un ufficio in pieno centro, logo e corporate gadgets, ambiente international e l'intrigo del primo impiego vero. Il mio coinquilino di allora era uno studente di teologia (luterana) e un cultore di bodybuilding, troppo ossimorico per la mia crassa mentalità da oratorio. Non l'ho rimpianto quando un giro di passaparola mi ha aperto le porte di una minuscola stanza su Rosenthalerstrasse. N e J sono stati i miei personalissimi Caronte verso l'infernale tedesco, e in quel disordinatissimo WG a due passi dalla Torre della TV ho cominciato a metter radici.
In una qualunque notte prenatalizia ho conosciuto B. e dovuto fare i conti con l'incapacità relazionale tutta teutonica. Un istruttore di arti marziali uzbeko mi ha rivenduto la sua bici usata, e con quella ho cominciato a fare pellegrinaggio ogni sabato e domenica da Liviu, violinista romeno col pallino per l'italiano.
Amici, esperienze, piccole conquiste giornaliere. Lo scontro con l'implacabile burocrazia tedesca, la ricerca di un nuovo, più confortevole tetto, l'assuefazione al tragitto casa-ufficio e il nuovo sepolto sotto la patina della quotidianità, gli ingranaggi della routine sotto un cielo solo più freddo e meno solare di quello cui ero abituata.
Ai soliti compagni di bevute se ne sostituiscono altri, quelli che contano restano e i voli low cost accorciano con una cinquantina di Euro la distanza.
 
Non ricordo più bene quando è arrivato il punto di rottura. Quando ho capito, lucidamente, che la sequenzialità dei miei gesti mi stava legando un cappio attorno al collo, che i miei automatismi erano antidoti al senso di inquietudine che mi mordeva dentro.
Credo sia stato, come quasi tutto, un processo. Non progressivo, come piace ricordare e credere per licenza di comodità. Dopodomani tonerò al mio posto in ufficio, prima di me solo S. che avrà già aperto le finestre e preparato il caffè. Accenderò il mio computer, prima di inserire la password avrò il tempo di riempire la caraffa dell'acqua e accendere quelli dei miei colleghi. Per 5 ore non mi concederò di pensare, mi illuderò che un click su Repubblica e uno su hotmail saranno l'ossigeno cui anelo.
In pausa pranzo andrò al fiume tra il vociare dei colleghi: come è andata? ti sei divertita? hai portato qualcosa dall'Italia? Qualcuno si eclisserà, tentando di dissimulare l'ovvio: c'è stato il mio compleanno, e rito d'ufficio (mai più letterale) sarà consegnarmi un biglietto d'auguri collettivo e un pensiero. Non posso scommettere su cosa sarà, ma spero nel successo della mia preventiva campagna di dissuasione da  buoni per manicure o Zara. Forse qualcuno porterà una torta, mi toccherà inventarmi lì per lì un grazie e strabuzzare gli occhi, fingendo che davvero non me l'aspettavo.
Aspetterò le 6, timbrerò il cartellino (che adesso si chiama badge) e inforcherò la bici. Potrò poi decidere se riesumare il cervello dalla formaldeide o meno. Probabilmente lascerò che le incombenze domestiche e il dovere morale di scambiare chiacchiere inutili con il mio coinquilino ritardino ancora il tu per tu con la mia coscienza.
E' questa sequenza che mi ha, lentamente, soffocato. Così un giorno ho scaricato da Internet un modello di lettere di dimissioni in tedesco Prima, purtroppo, ho dovuto sottopormi alla straziante farsa del colloquio con la mia capa. Mi sono sentita ripetere suadente "tranquilla, non sparirò in malattia", e poi il timbro ufficiale. Con le ferie residue, il 21 settembre mi congederò dalla scrivania: porterò a casa le cuffie con cui ascoltavo Spotify, il caricatore del cellulare. Lascerò ai posteri qualche rima goliardica appesa agli armadi, fino a che anche l'ultimo collega che può coglierne l'ironia se ne sarà andato e qualcuno, accigliato, strapperà i fogli per far posto ad organigrammi e foto di fidanzati, figli o paesaggi tropicali.
Il 25 settembre troverò una scusa per bere al mio anno solare a Berlino.
E poi?
Poi.
il DNA da ragioniere non mente, qualche pista da seguire ce l'ho. I conguagli della Sparkasse saranno la mia stella polare nella rotta verso il "dopo". Al "cosa fare della mia vita". L'agosto padano è impietoso: da 26 anni esatti mi accascia sul pavimento, pregando per un temporale improvviso, da due anni mi sibila velenosamente la stessa domanda. La lancetta delle mie primavere (anche se sono nata d'estate) è l'unica che sa il fatto suo, che imperterrita prosegue incurante di crisi esistenziali, sentimentali, economiche, del petrolio, cosmiche.
Ancora per un po' gli automatismi della mia ormai non più nuova normalità mi consentiranno di non fare i conti con me stessa, ma tornando a Berlino, non potrò più immaginarmi come un personaggio alla Camus, imprigionata in una crisalide d'afa dove le grida dei grilli della mia coscienza rimbalzano sordi.
Stanotte mi concederò di ascoltare, una volta di più, quelli dei campi padani. Chi dice che cantano? Mi sono sempre sembrate urla che trafiggono l'agonia della calura estiva.

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