“oggi ho imparato una nuova
parola in italiano!”
“ah sì? Dimmi”
“figa!”
Di solito, tremenda untrice di
tali coprolalie sono io. Stavolta mi proclamo innocente, al netto della
propensione orobica per i francesismi. Più volte mi è capitato di dover
spiegare cosa fosse una “figa”, e come ogni volta mi sono imbattuta in tutta
una serie di sfumature. Non si tratta più di mero nozionismo lessicale, si
sconfina nella cultura, quella che un tempo (mi pare), al liceo si chiamava “civiltà”.
Ora, che una dissertazione sulla figa sia “civile” è opinabile, tuttavia è
indubbio che è ben più che un mero locus pubicus.
La prima cosa da dire ad un
crucco è “muschi”, che è la traduzione letterale. Purtroppo a me la parola ha
sempre ricordato “moscerino”, cosicchè mi è capitato di implorare un sorso d’acqua
perché avevo involontariamente mangiato una “muschi”. Lascio immaginare le
reazioni dei fortunati astanti. (per una esasustiva raccolta dei sinonimi dell'organo rimando a Wikipedia)
Poi, si sa, f. (d’ora in poi, per
non scatenare la censura) è anche una bella ragazza. Forse l’epiteto non è da
Accademia della Crusca, ma tant’è. Non basta, tuttavia, come spiegazione,
altrimenti l’incauto teutone (o qualsivoglia straniero) potrebbe incappare in
un sonoro schiaffo o, se donna, in qui pro quo non necessariamente graditi. Per
cui bisogna puntualizzare che f. va bene se si è fra amici: o maschi, oppure
misti ma con alto grado di intimità. E' così che il buon B., una volta,
apostrofò la mia amica (italiana) C: “ciao, bella f.!”. Lui apprende per
imitazione, e del resto non aveva tutti i torti: nel mio bon ton quotidiano, sono
solita salutare così le mie amiche più strette. E così un’ulteriore postilla:
fra donne, o fra amici, il termine è accettato e perde il connotato pubico da
cui deriva.
Spregiativo è “f. di legno”, che
indica una bella ragazza che però “se la tira” (e con “la” è sotteso proprio la
sempiterna f.) ed è inqualche modo inavvicinabile e/o insopportabile.
Dalle mie parti, inoltre, “f.” è
un passepartout. Sta all’esperto uditore collocarlo a secondo del contesto e
del tono di voce. Gli esempi pratici che ho enumerato oggi:
“Ieri ho vinto al Superenalotto” “F!
Non ci credo!” ma anche, “F?!”
“Mi hanno fatto portafoglio e
cellulare, f!”
Si evince prontamente che nella
frase 1 il nostro bel termine è di sorpresa, peraltro spesso usato da solo, con
A finale allungata e in crescendo. Nel secondo esempio, è un impropero, e può
essere, secondo i gusti, sostituito con l’alter ego della f, il cazzo (ma mi
riprometto di discettarne un’altra volta). Direi che, approssimativamente, in
tedesco potrei avvalermi del polivalente “krass”, che però, di per sé, non vuol
dire nulla, è come se fosse l’onomatopea di un tedesco che esprime una qualche
reazione, positiva o negativa secondo i casi.
Ci sono poi i derivati. Basta
cambiare il genere (duttilità che sconvolge sempre i teutoni, visto che si
tratta, in fondo, di una parte anatomica, peraltro molto sessualmente
connotata, e anche qui ricorro al buon B. come cartina tornasole): figo. Qui si
perde tutta la carica di volgarità implicita nella versione femminile. “Figo”
fa molto anni ’90, credo che per la prima volta i miei me ne proibirono l’uso
dopo che l’avevo sentire da Ambra di Non è la Rai. Oltre che un bel ragazzo, “figo”
è anche qualcosa di ganzo, cool, quello che negli anni ’80 era “mitico” (e,
credo, nel mio deserto dei Tartari cinematografico, “libidine!” per Gerry
Calà). Idem dicasi per “figata”, dove il concetto di figaggine esula dal fisico
per proiettarsi verso più impalpabili contorni di stile e savoir faire.
Con “figo” si può, però, anche
redarguire: “non fare il figo” a chi si atteggia, o ancora, con il diminutivo “non
fare il fighetto” per chi è troppo esigente. Un “fighetta” di solito è un
milanese, un bauscia, qualcuno che unisce la negatività del mettersi in mostra
(figo) e dell’ essere schizzinoso.
Infine, una bella S privativa in
fronte, e abbiamo la sfiga che, per confondere ancora di più i poveri stranieri
alle prese con la lingua dell’uomo della strada, non è né l’organo maschile, né
una bruttona, come una parvenza di logica suggerirebbe. La sfiga è,
semplicemente, la sfiga, termine ormai sdoganato per “sfortuna, malasorte”.
Quindi attenzione, oh studenti dell’italica favella, tra l’esclamare “che f.!”
e l’esclamare “che sfiga!”. L’aggetivo che ne deriva, “sfigato”, torna a rasentare
il concetto di coolness, nel senso di non averne, di essere un po’ looser, uno
che non ci sa fare, una specie di antenato del geek o dell’imbranato. Ammetto
che è una parola che ho sempre cordialmente detestato, me ne sfugge il
significato pieno, ma direi che va al passo dei tempi e ogni stagione ha il suo
prototipo di sfigato.
Immagino che in un manuale per l’insegnamento
dell’italiano non ci sia una voce per il vocabolo, ma giuro di averci avuto a
che fare più volte, anche con la variante (credo meridionale) con la C. La più
lampante, quando il mio studente L., romeno, mi accolse sulla porta con “tu per
me sei come una fica”. Dopo il primo, inevitabile nanosecondo di shock, ho
appurato che in romeno significa “figlia”, e che il buon signor L. stava solo
esprimendo una sorte di affetto paterno verso la sua mentore.
“Ciao, caspita, che figata la tua
nuova moto”
“eh sì, solo che ho avuto la
sfiga di bucare proprio ieri, non ci voleva!”
“ah, figa! Davvero un peccato. Ti
vedevo già a fare il figo sgommando per il centro per rimorchiare”
“Ma no, dai. In centro ci sono
solo fighette quindicenni”
“beh, alcune però, devi
ammetterlo, sono davvero fighe. Magari qualcuna un po’ di legno, però ci stan
dentro”
PS: ricordate il buon detto
inglese “never shoot the messenger”. Io non ho creato la volgarità, solo la
analizzo asetticamente.
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