lunedì 27 agosto 2012

cronaca di una gita (con licenza di sentimentalismo e senza foto)

Giovedí, rintocca la mezzanotte. Metaforicamente, qui le campane (se ci sono) sono inghiottite dagli ingranaggi di S-Bahn, U-Bahn, tram, autobus, catene di bici, popolo della notte.
Trilla il cellulare: è B. “Ti va di venire qui nel weekend?” Qui è Hennstedt, un paesello di 1914 abitanti nello Schleswig Holstein, a circa un´ora dal confine con la Danimarca.

Inutile chiedere: le trasferte dell´ultimo minuto mi galvanizzano. Il mattino pedalo al lavoro con uno zaino in spalla, con l´essenziale per resistere alle nordiche intemperie (o cosí credevo). Dribblati gli impegni piú urgenti della mattinata, dissimulo un´indigestione e mi infilo in bagno, filo diretto con Berlin Linien Bus.

Biglietto last minute, con non troppi E mi assicuro un posto Berlino-Amburgo-Berlino. Salto la pausa pranzo, affido il mio biruote ad un amorevole collega perché lo sorvegli durante il weekend, alle 17.30 mi congedo e volo verso la ZOB, la stazione centrale degli autobus. Nel tragitto osservo le minuscole casette con orto annesso alla periferia della cittá, miniature di campagna per i berlinesi che vogliono un´illusione bucolica.

In stazione, il solito, furtivo sguardo alle badanti di un non meglio precisato Est, che tornano a casa con pacchi incartati alla bell´meglio, valigie con lo scotch, ai senzatetto che dormono sulle panchine, globe trotter con infradito e scarponi penzolanti da zaini monumentali. Respiro umanità, e poi volo a ritirare il mio biglietto. Tecnicamente, avrei avuto 10 minuti d´orologio ad Amburgo, per  poi continuare il mio viaggio. Ma, talvolta, la fortuna aiuta davvero gli audaci e riesco ad infilarmi su un autobus precedente che è in ritardo.

Attraverso il piatto Brandeburgo, bastano 20 minuti e scompare ogni traccia di urbanizzazione: si alternano boschi e campagne, solo i cartelli stradali e le pale eoliche a ricordare che, in fondo, siamo pur sempre nel cuore dell´Europa.
Di Amburgo faccio in tempo a vedere la stazione degli autobus, il WC centre di quella dei treni e a mangiarmi un panino al volo. Alle 22.10 parte il treno con destinazione Kiel, io scendo, invece, a Elmshorn.

Fa freddo, la stazione è minuscola, credo che si contino su una mano gli stranieri passati di lí (fatti salvi, forse, i danesi). A smentire le mie statistiche, alla banchina un camerunense decide di ammazzare il tempo raccontandomi perché e per come é finito in Germania. Sul perché stia viaggiando in queste remote lande, nicchia con "visita".
Intirizzita, balzo sull´ultimo treno, direzione Husum, la mia fermata: Heide. I nomi delle fermate cominciano a farsi sinistramente scandinavi, mi aggrappo a Heinrich Böll per non cedere a Morfeo.

Alla spettrale fermata, B. è l´unico umano, eppure non è solo per questo che mi fa bene vederlo. Settimana prossima s´imbarca per un mese, fino a Lisbona, velista  per passione. Una settimana fa è partito, tappa a casa dei genitori, non pensavamo di vederci nel frattempo, ed invece eccoci qui.

Non ho avuto il tempo di farmi mille paranoie per l´incontro con i genitori: cosa dico, cosa porto, cosa si aspettano. Arrivo sfatta, piuttosto stanca. Ad aspettarmi c´è anche la sorella, tutti parlano con un forte accento svevo, un po´come ritrovarsi a Trento con una famiglia pugliese: gli anziani signori W. si sono trasferiti dalla Svevia all´ultimo lembo di Germania prima della Danimarca. Non ricordo come siano andati i convenevoli, mi sono infilata presto nel Wohnwagen che ha visto innumerevoli viaggi di famiglia. È una macchina grossa, con annesso cucinino e col sedile ribaltabile in letto. Il tettuccio si puó manovrare per poter stare in piedi, oppure diventa un ulteriore posto letto. Totale posti letto: 4.

La mattina solo una doccia riesce a riportarmi a sembianze accettabili, e mi siedo al desco famigliare, consapevole, ora sí, che è il momento del classico vis-á-vis con i genitori di B. Tra una fetta di pane nero e l´altra, conosco anche N., il ragazzo francese, hippy e buddhista della sorella. Non spiaccica una parola di crucco, e finiamo per parlare in francese perché anche il suo inglese è troppo gallico, almeno di prima mattina. Avere un altro latino di fianco, per una volta, smorza il mio imbarazzo. Ad accogliermi ci sono anche gli storici animali di casa: Nova, un bel golden retriever che fissa intensamente qualunque cosa commestibile finisca nel mio piatto, e Silvester, un gattone talmente grasso che, per saltarmi in braccio, mi ficca le unghie nelle gambe e mugola lamentoso, peché da solo non riesce a saltarci sopra.

Il franco e la sorella si volatizzano in fretta: pare siano rimasti appositamente per stringere la mia augusta mano, ripartono , non dopo una foto di rito che mamma crucca ha voluto assolutamente.
Mamma W. sfoggia la cromia d´ordinanza: occhi azzurri, capello a spaghetto con retaggi di biondume, jeans e felpa incurante dell´etá, parlata schietta e nessuna ossessione maniaco-compulsiva per i peli del gatto che svolazzano per casa.
Papá W. sembra un´icona ortodossa di un padre della Chiesa: ha giá passato la boa dei 70, barba lunga e pacatezza di chi la sa lunga. È facile chiacchierare percorrendo i titoli dell´immensa biblioteca che troneggia in soggiorno.

Wohnwagen alla mano, cane sul retro, io e B. partiamo in avanscoperta, destinazione: Sankt Peter sul mare del Nord. Il mare del Nord ha una bellezza tutta sua, niente dei bagliori caleidoscopici o degli aromi penetranti del Mediterraneo.  Le nuvole galoppano furiose, il vento è impietoso, e spesso il timido sole viene letteralmente fatto a brandelli da una pioggia breve, ma intensa. I colori sono piuttosto cupi, la bassa marea lascia chilometri di fanghiglia, resti di crostacei, conchiglie, qualche sporadica alga. Si cammina sul soffice letto, i piú coraggiosi lasciano che le onde li lambiscano fino alle ginocchia, i piú si danno al kite-surfing. I piú contenti sono i cani, di ogni taglia e di ogni razza, che corrono, si rotolano, inseguono bastoni. I padroni sono impegnati a mantenere l´equilibrio nel vento.

A Freidrichstadt, casette colorate, decorate con antichi uncini per la pesca, barche piú o meno arrugginite al porto, tutto come da cartolina. Sulla piazzetta del mercato un´osteria con un nome in romanesco, leggo incuriosita il menu e decreto che sí, siamo arrivati anche in questa landa battuta solo dal vento e dai turisti crucchi:  nessun errore di ortografia e piatti regionali che difficilmente un finto italico potrebbe inventarsi. 

Una volta rientrati a casa, B., traditore, si dichiara in mood bradipo e va a farsi una pennichella, lasciandomi l´onore di intrattenere i genitori W. In realtà la lingua mi si scioglie senza troppi problemi, e ben presto è ora di cena. Mamma W. mi propone qualcosa di poco ghiotto, non so bene cosa sia, ma a queste latitudini la fame chiude un occhio sulle abilità ai fornelli.
Il dolce, peró, riesce a soddisfare le mie velleitá culinarie: si chiama, banalmente, “la fetta danese”, ed è un blocco di marzapane, zucchero e uvetta. Confortata dall´ululare del vento e dalla felpona che cela il girovita, mi preparo all´ultima sessione di consesso famigliare per poi infilarmi a letto.

Domenica si va verso Husum, centro quasi “urbano” per i modesti standard locali. Inseguo un cartello illudendomi che “castello” indichi davvero qualcosa di imponente e vetusto, per poi ritrovarmi davanti ad un edificio anonimo, solo piú grande degli altri. Piove fitto e Nova no puó chiedere di meglio, io mi rifugio sotto la giacca waterproof XL che mamma W. mi ha pietosamente prestato. La seconda meta sono delle dighe artificiali, io ci trovo poca arte meccanica, ma il riflusso delle onde sul grigio del cemento ha un suo fascino, avverto quasi l´eco del canto della Sirenetta.
Infine, è la volta di un´isola, Nordstrand: il paesaggio si incurva in dolci colline, pecore e mucche pascolano libere, Nova va tenuta al guinzaglio perché non le spaventi. Il vento è il costante compagno di viaggio. All´orizzonte si profilano fari e mulini, spesso di rosso acceso.

La sera una seconda, ultima cena tutti insieme. Di nuovo non so bene cosa mangio. In un vassoio ci sono tagliatelle senza alcun condimento, in una terrina da forno un insieme di verdure solo verdi e formaggio e in un bricco della salsa. Di nuovo, ho troppa fame per esibirmi in dotte dissertazioni di purismo pastafilo, e riesco anche a replicare con un tocchetto di marzapane con tanto di gelato alla “valzer viennese”, un tripudio di noci, nocciole, caramello.

Alle 18.30 è ora di pensare al rientro. Mi lambicco sull´osservazione di mamma W., che sostiene io abbia un naso romano, quando nei patri confini sono sempre stata classificata come nasalmente poco dotata. Strette di  mano e via. Alla stazione mi attende un breve, ma inteso saggio di  mos germanicum: una ragazza appostata alla macchinetta dei biglietti chiede se qualcuno va ad Amburgo.
Detto, fatto: a quota 5 passeggeri scatta il biglietto di gruppo. Anziché 21, irritantissimi Euro (per una tratta di 1h30 circa), ognuno ne sborsa 7. Per chi teme di doversi poi socializzare con i co-bigliettari, niente panico: basta sedersi ad un raggio di qualche sedile di distanza, nessuno si sente in obbligo di fare conversazione. È un mero atto di risparmio, siglato dall´apposizione dei nomi sul biglietto in questione: all´anagrafe Sarah Stenzel, Niko Börger, Marthe Leikkeber e Marwin Weven, che per me incarnano l´essenza dell´incontro casuale di atomi per fini imperscrutabili.  

Cambio di nuovo ad Elmshorn, poi scendo ad Amburgo. Questa volta nessun tour per le panetterie aperte fuori orario in stazione, volo subito sull´autobus. Il decalogo del comportamento da tenere è subito enumerato da una fermavoce baritonale: niente cellulari, uso dei cestini, solo carta nel bagno chimico di bordo, allacciamento cintura come previsto dalla legge tal dei tali.

Per questo rientro Morfeo vince facile contro Böll. Recupero mezz´ora di lucidità solo per ritrovare la fermata della S-Bahn di Messe Nord. Nel pieno ovest, c´è un qualcosa di ferraglia che sembra una piccola Tour Eiffel, nei sottopassaggi deserti rimbomba amplificato  il training notturno di uno skater solitario. Di nuovo incrocio lo sguardo con la popolazione della stazione degli autobus.

Sull´ultima S-Bahn mi imbatto in un turco che addestra a bordo il suo gigantesco mastino, approcciato da un tedesco random che continua a ripetere che muso dolce abbia il cane. A me sembra uno di quei cani da combattimento che sbranano qualunque cosa semovente.
È l´ultimo fotogramma prima di attivare la sequenza automatica: chiavi-entrata silenziosa per non svegliare il coinquilin che dorme- scivolamento nel letto.

Un weekend da turista per caso archiviato.

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