giovedì 30 agosto 2012

Scrivo


In ufficio scrivo rime, short stories, acrostici, pizzini… qualunque stupidaggine. Bisogno di condividere? Anche. Desiderio di piacere? Forse. È un po´la sindrome del giullare, mostro solo quanto mi sembra rientrare nella categoria dell´”ironico”. Riflessioni piú o meno velleitarie, flussi di (in)coscienza, poesie e confessioni, insomma la vasta produzione da segheria autogestita rimane solo nel mio disco fisso, con il brivido di viaggiare su chiavetta usb per seguire i miei vagabondaggi. Mi piacciono le parole: sembrano cosí innocue, mere convenzioni. Non hanno peso, eppure (lo si sa da millenni o forse piu) sono le peggiori armi, quello che (cosí ci piace credere) ci distingue dal resto del mondo animato, la prima conquista degna di nota di un neonato. A parole si puó fare di tutto, senza dover per forza sbracciare nel mare che le divide dal "fare".

Scrivo su qualunque cosa, presumo, inteso come tema e come supporto, perché ovviamente mi dimentico quasi sempre la buona intenzione di portarmi un bloc notes. Poi, figlia dell´ultimo, meno eroico scorcio del ventesimo secolo, digito tutto e dö una forma standard, universalmente intellegibile agli scarabocchi deformi che si accumulano sulla scrivania o che ritrovo nelle tasche dei pantaloni (quando mi ricordo i consigli materni e le controllo prima di sbatterli in lavatrice)

Un paio di mesi fa, in fuga dai festeggiamenti di un matrimonio a Dresda, ho imbrattato ogni centimetro quadrato dell´elegante cartoncino su cui il programma della cerimonia, comprensivo di auguri e canti in chiesa, era stampigliato. Non ricordo dove ho rimediato un mozzicone di matita, è da poco che ho ritrovato il cartoncino, interamente coperto di segni che solo a fatica riesco a leggere. Davanti a me si snodava placida l´Elba, un sole quasi estivo mi incollava l´abito d´occasione e qualcuno si era messo a cercarmi, ma nessuno nel boschetto intorno al castello delle favole, in cui mi ero inoltrata incurante delle fiacche per i tacchi comprati a 10 E da un turco di Kreuzberg.

Tra tre settimane lascerò l´ufficio, qualcuno avrá forse l´accortezza di dare una ripulita al posto che è stato mio per quasi un anno solare, di scrostare il cerchio del bicchiere (sempre lo stesso) che uso da mesi, di staccare i post it e, insomma, cancellare le mie tracce. Non so se qualcuno e  chi erediterá la mia postazione, con vista sul generoso decolleté della capa e spalle all´ingresso, ottima scusa per non dissimulare un sorriso a 32 denti ai colleghi alle 8.30 di mattina. Credo rimarranno alcune delle stupidaggini circolate via email e che qualcuno ha stampato: un Padre Nostro, un “Everyday I love you less and less” rivisitato, un necrologio, un annuncio di nascita e un rebus. C. ha conservato in una busta i miei cosiddetti “pizzini”, talvolta in rima, altre no.

Cosa sono le parole? Non so se davvero siano  meno volatili quando sono scritte. Ormai l´ebbrezza del nero su bianco è da tempo svanita. Niente amanuensi che si consumano alla luce di fioche candele, nemmeno macchine da scrivere che inceppano o finiscono l´inchiostro.
Io non ho mai capito il meccanismo del fax. Continuo a farmelo a spiegare, e continuo a guardare l´apparecchio con occhio vacuo, è al di lá delle mie possibilità di comprensione.
Ricordo l´emozione di aver degli “amici di penna” quando alle medie studiavo l´inglese, poi il piú consapevole scambio di lettere con J., amica tedesca che, prima di trasferirmi, vedevo a cicli da rotazione triennale. Le dicevo che avremmo sempre dovuto scriverci su carta: quadrettata, a righe, da lettere, colorata. I 60 centesimi per il francobollo sarebbero valsi a qualcuno, fra chissà quanti anni, il tattile disvelamento di un cimelio che veniva dal passato.
Dopo qualche anno, il successo della mail è stato inversamente proporzionale alle rispettive diottrie e disponibilità di tempo.

Tuttavia,  ho ancora un certo, feticista affetto per la carta. C´è la stessa differenza che fra parlare a qualcuno al telefono o di persona. Via cavo si perdono le espressioni, gli impercettibili gesti dell´altro, il suo odore. La carta suggerisce quanto in fretta qualcuno ha scritto, se ha cercato accuratamente un foglio o preso il primo che gli capitava a tiro. Talvolta si inizia con un colore e poi la biro muore in fieri, nei casi piú fortunati delle macchie lasciano intuire se chi scriveva stava bevendo, magari piangendo. Scrivere comporta fatica. È un gesto piú fisico del digitare, mi è capitato di avere quasi i muscoli del braccio intorpiditi per aver scritto e troppo di getto. Chissá quante persone,a l giorno d´oggi, sono abituate a non scrivere a mano se non la propria firma e le due righe d´ordinanza sulle cartoline (ammesso che resistano alle foto istantanee degli i-phone). Mi sento sgualcita come il foglio di una vecchia lettera dimenticata al sole, con lßinchiostro sbiadito.
Anche leggera comporta fatica. Non c´é l´opzione “ricerca parole chiave”, né un font standard Arial 10 nero. Serve destreggiarsi tra cancellature (magari provare a scoprire cosa celano), righe storte, errori di ortografia (non c´è nemmeno il correttore automatico con annesso riconoscimento linguistico), stanchezze di chi scrive.
Comincio sempre con una calligrafia che reputo decentemente nitida, finisco sempre per lasciare le zampe di galline tanto vituperate dalle maestre delle elementari.
La calligrafia si evolve con noi, segue la nostra abilitá manuale, il nostro vigore, probabilmente i nostri calli. Chi ha le unghie lunghe, chi porta braccialetti, chi è mancino, chi si mangia le unghie. Ad un certo punto, inconsciamente, ci ribelliamo naturalmente ai dogmi di chiarezza che ci inculcano sin dal primo giorno di scuola. Diffiderei di chi mi scrive con calligrafia asettica, senza una sbavatura né unß incertezza.

Ho appena scritto l´ennesima stupidaggine da appendere all´armadio. Non so scrivere dritto e scrivo grande, o almeno credo. Ormai mi capita semrpe meno di redigere (che giá suona piú austero di “scrivere”, ma “vergare” sarebbe davvero troppo), e sempre meno di leggere quanto scritto da altri.
Anche ora, tasteggio fra un lavoro e l´altro, non occupo alcuno spazio fisico né ho sensi di colpa per qualche astruso albero amazzonico che muore sotto i colpi della mia biro. Sto producendo (almeno credo) pixel, qualcosa di tremolante che sta al contempo (potenzialmente) su miriadi di schermi, di fronte a persone sedute o sdraiate in caso di laptop. Un click e sparirebbe tutto, un click e potrei spammare, un altro e avrei il famoso nero su bianco. Nitido, addomesticato, allineato, grassetto, corsivo, colorato.

Perché sto scrivendo? Un monologo senza capo né coda.
Stasera mi toccherà riesumare carta e penna. E trovare un destinatario (senza previa richiesta di consenso).

PS: appena pubblicato il post, ho rotto i satelliti medicei alla mai collega greca: quando imaprate ad usare i caratteri latini, per cosa li usate. Mi sono addentrata nel mondo del greeklinsh, nel dibattito a fil di facebook su come trascrivere il suono "TH" (o CH  o X, a secondo dei gusti). E ho pensato a come le lettere siano, forse, gli unici strumenti (quasi) immortali. Da secoli sono sempre, piú o meno, uguali a se stesse, eppure si sono adattate ai cambaimenti piú impensabili: l´´ avvento della stampa, lo sconvolgimento dei supporti fisici, i codici morse, le violenze dei messaggi sms.
Vorrei un altro alfabeto. O infinite ore per perdermi in questa spirale mentale di nulla, che grazie ai segni grafici prende quasi corpo e reclama, seppur solo a suond i pixel, il suo diritto all´esistenza.

Nessun commento:

Posta un commento