Attenzione: post lungo e un poco sconnesso. Ma è domenica, se santificate le feste non dovreste lavorare, per cui magari un po’ di tempo da buttare l’avete.
Venerdì sera ho deciso di por fine al caos primordiale del mio WG: con perentorio arbitrio divino, ho rivoltato ogni stanza (salvo quelle da letto di J. e N.) implacabile sterminatrice di polvere, briciole e microbi vari. Mi sentivo lo sponsor di una ditta di detersivi, una di quelle massaie ruggenti che poi si mettono in tacchi a spillo e tailleur e accarezzano i mobili sospirando di soddisfazione. Anche se, in realtà, mi sono messa in pigiama e issata sul divano, waffel al cioccolato e the alla mano, pronta ad una serata casalinga e nonnesca. Sono poi sopraggiunti i coinquilini e si è virati verso una domesticità più spumeggiante: dalle riserve di casa è spuntato dell’assenzio, scrupolosamente servito con zucchero e fiammella, e abbiamo guardato un film davvero demenziale. Auf deutsch, mit deutschen Untertiteln.
Mentre io mi fondevo con la poltrona, giustamente ai due stomaci crucchi è venuta fame, anche perché avranno cenato alle 17.00 suppergiù. Per cui cosa c’è di meglio per un languorino di una bella crema di broccoli? Spadellamenti della mezzanotte e addio profumo di igiene, con buona pace del mio lato da massaia mediterranea. Poi nanna e via.
Verso un sabato ancora più crucco.
Mi sveglio quando i miei neuroni decidono di esser pronti per la giornata. Uno sguardo malinconico alla pulizia che scema lentamente, ma inesorabilmente, e mi avvio. La missione del giorno: trovare una giacca che mi garantisca la sopravvivenza all’inverno di queste latitudini. Muesli e joghurt e via, direzione Alexanderplatz, cuore pulsante del consumismo, già agghindato per Natale. Per strada, uno stand di Lindt ammicca voluttuoso e non posso fare a meno di munirmi di tavoletta “edizione natalizia”: latte e cannella. Ora, ci vorrebbe una digressione sul tema “cioccolato”, ma per ora vi basti sapere che sono ovunque, in ogni gusto, e meno cari che da noi. E ho imparato a dir raramente di no.
Nel negozio scruto e tasto ogni giacca, aggiornando la classifica mentale e pervenendo ad una top 3. Nel frattempo, cerco di immaginare che taglia ho qui in Crucchia. E, maraviglia suprema! Il conto scala scala e sono una splendida 38-40! Grazie salsiccialand, tu sì che gratifichi il mio ego. Solo che per capirlo, mi sono rassegnata a scegliere la prima sciura di turno, sui 60 anni, il mio target preferito.
Mi acquatto fra una gonna ed un pantalone, quando la preda designata si aggira ignara del pericolo, in un balzo son da lei, sorriso da pubblicità e “Scusi signora, una domanda stupida: ma secondo lei, che taglia ho?” Il pragmatismo teutonico emette sentenza, poi inquisisce sulla mia nazionalità. “OH, italiana! Allora magari può aiutarmi nella scelta!”. Grazie di nuovo, Wurstiland, qui sono una taglia da modella, un Vissani ai fornelli e persino un consulente di moda. La signora mi mostra una gonna viola, marrone e gialla, delle calze verdi e un paio di scarpe nere. Tronfia della mia proverbiale affinità con il trend, prelevo delle calze marroni e le intimo di scegliere delle scarpe che richiamino le tinte della gonna. Soddisfatta, la signora se ne va, ripromettendosi di seguire i miei saggi consigli. Scommetto che fra sé avrà mugugnato: “Cosa diceva la ragazza? Ah sì, calze a pois e stivali arancioni”.
Sono uscita solo con un pacco-scorta di calzini pesanti e, vizio mai sopito, dei pacchianissimi orecchini sgargianti a 2 euro. Per strada addento un brezel caldo, 80 centesimi per un’opera d’arte di panetteria, la chicca che qui non t’aspetti. Fragrante, profumato, salato quanto basta per farti venire voglia di una birretta. Ed ogni desiderio, oggi che mi sento meritevole, è un ordine. Ho perfino lasciato la bici a casa, mi infilo in metro e il Cielo mi mostra chiaramente il suo favore odierno: un signore mi regala il suo biglietto, valido ancora per un’ora. Frankfurter Tor, meta: il più grande negozio Humana della città.
E l’Humana è un condensato di crucchità. Raccoglie vestiti, scarpe, mobili e casalinghi usati senza pagar nulla a chi li lascia, e poi il ricavato (o gran parte) se ne va in beneficienza. I quattro piani sono in piena Berlino Est, con strade larghe una città e gli edifici cupi, cubici, che quasi vien voglia di cercare le cupole del Cremlino all’orizzonte. I quattro piani dell’Humana sono il paradiso di chi ha gli stessi gusti della signora di cui sopra. Me compresa. Il primo piano è muliebre: file sterminate di gonne fino a taglie giulianferraresche, pantaloni, camicie, camicette ordinate rigorosamente dal bianco candido al nero corvino, passando per arancione catarifrangente, azzurro puffo e verde elettrico. O meglio, un mix di tutti questi colori.
Ci sono i camerini, ma molte donne, levate le scarpe, provano un po’ dove capita, così mi adatto subito e comincio a indossare una giacca dopo l’altra, alla ricerca della compagna di pedalamenti per i lunghi mesi a venire. Nessuno, ahi lasso, mi chiede consulenze di stile, ma per contro mi perdo in abiti anni ’80 e una collezione di abiti da sposa usati, soffermandomi anche su sciarpe di finto pelo, paraorecchie leopardati e coprispalla con cappuccio peloso incorporato. Alla fine esco senza nulla, ma sempre aggiornando il mio rating di rapporto qualità/prezzo, decisa, settimana prossima, a giungere ad una decisione inequivocabile.
Intanto il Lindt alla cannella addolcisce il freddo. Uno sguardo all’orologio perché fuori è buio pesto, ma non sono ancora le quattro. Tappa a casa. Poi ho appuntamento con L. & F., due amici italiani in visita. Ci dirigiamo verso Max & Moritz, trattoria tipica, zona di Kreuzberg. Altro capitolo meritevole di lunghe righe, il quartiere turco dove femministe punk, artisti hipster e musulmani velati coabitano in mosaico arlecchiniano e impareggiabile. Ci basta una portata per esser pieni, io opto per i Maultauschen e nel frattempo mi dò allo human-watching. Vicino a noi una tavolata di una ventina di esemplari di puro crucco, uomini con apertura alare oltre i due metri, coetanee di mammà che sfoggiano con nonchalance permanente e rossetto abbinati a kiwai e sandaletto estivo.
Poi è la volta di attrezzarsi per la serata. R., collega potenzialmente testimonial della Hitler Jugend, se non fosse gayissimo, ha invitato me ed altre colleghe a casa del suo ragazzo, per un “pre-serata” che dovrebbe poi culimare in un gay party in un club nell’estremo est della città. A casa ho trafugato qualche Sterni, birra economica per eccellenza, 6 politico e simbolo della città. Alle 21.15 ho appuntamento con O., irlandese dle mio ufficio, accento inequivocabilmente di Dublino periferia ed un cognome assolutamente impronunciabile. Il luogo d’appuntamento è il Weltzeituhr, orologio in Alexanderplatz che segna tutti i fusi orari. Chi bazzica lì, aspetta per forza qualcuno. C’è la bionda scocciata dal ritardo, presumibilmente, del suo cavaliere, capannelli di giovani sudamericani in abiti da rapper, turisti infreddoliti. O., ovviamente, è in ritardo. Arriva stacchettando con una borsa piena di quelli che ritiene essere “gay drinks”, cioè prosecco alla pesca e altre bottiglie color pastello che tintinnano pericolosamente ad ogni suo passo. Non sa l'indirizzo, non ha idea di quale sia la fermata, e si affida ciecamente al mio senso dell’orientamento. Del resto, se Colombo ha trovato l’America, io troverò Pettenkorferstrasse in Berlino Est, no?
Camminiamo un’ora. Incrociamo una coppia ottuagenaria che alla domanda “scusate,sapete dov’è Pettenkorferstrasse’” ci risponde con un laconico, granitico “sì”, e un ragazzo che ci dice “ma è in Friedrichshain, qui siamo a Prenzlauerberg”. Attraversiamo il ponte e siamo nel quartiere giusto. Quando raggiungiamo il luogo della perdizione, la casa è già ben riscaldata. Ci sono solo ragazze e tanti, tantissimi gay. Mai visti così tanti, così patinati. Il ragazzo di R., ha un fisico statuario, lascerebbe a bocca aperta qualunque donzella, salvo il fatto che si presenta con una canottiera minimalista, ascelle e petto glabri al vento. E’ come guardare qualcosa di troppo levigato, fa quasi male agli occhi. O., sconsolata, capisce che tanto meticoloso belletto per stasera andrà sprecato, l'apertura della stagione di caccia è rimandata a data e luogo da destinarsi.
Apro la mia Sterni con l’accendino e mi sento un camionista bresciano, che sorseggia birra da pochi centesimi mentre gli altri, non un capello fuori posto, mescono le famose “gay drinks”. Caschetti con frangia, occhialoni giganti, jeans attillati. R. ha il biondo crine perfettamente gellato, una camicia di 4 taglie meno del dovuto e, soprattutto, molta paura che al trash gay party qualcuno gli sotragga la dolce metà. Così ci si dirige verso la discoteca designata. Di nuovo si cammina per un’eternità, fra le propaggini di quello che, complice l’oscurità, sembra un bosco.
E lì abbandono la compagnia, provata dalla girandola di stimoli visivi e consapevole del corso di italiano la domenica mattina. Attendo cronache inenarrabili da chi, stoico, è rimasto. Il programma prevedeva drag queens e spogliarelli, e non so che altro.
Ma berliniamo a piccole dosi.
Stamattina niente corso di italiano. Il mio prode studente è malato. Così mi godo un’altra stilla di germanità. I genitori di J. sono qui per il weekend, dormono sul divano (con buona pace di mia mamma) e alle 9 c’è il Frühstück comune. Prosciutto, salsicce, marmellate, burro, muesli si affestellano sul tavolinetto (non abbiamo un vero e proprio tavolo), mentre mamma Ute (e qui il nome lo si deve proprio dire, è troppo germanofono per non darlo in pasto a Internet) trotterella per casa. Pomerana come il marito, mi chiedono quanto sole c’è in Italia, se la mattina mangio la pasta e si stupiscono al mio stomaco che, anche per merito delle Sterni notturne, si rifiuta di introdurre più che joghurt e muesli e, naturlich, ein “Espresso” che è, in realtà, una tazza di caffelatte. Papà Ulrich narra dela prima birra del figliuolo, a 7 anni, qual tenerezza e qual precocità. Inquisisco se mamma Ute cucina, ma la prole subito ribadisce che è meglio evitare i suoi fornelli: “cucina alla pomerana: grasso su grasso senza sapore”. E se lo dicono i mangiatori di crema di broccoli, non oso immaginare. Di solito grasso è buono: godimento delle papille e retrogusto di colpevolezza nei recessi della coscienza. Ma se è grasso e pure non buono, preferisco sventolare il mio tricolore e ritirarmi nelle mie stanze. Peraltro, qui mi pare che coesistano senza problemi due estremi, e cioè un giorno si mangia un quarto di maiale con lardo, patate, burro e birra (sarà un caso la quasi omofonia?), e un altro tofu al naturale con germogli di soia crudi.
E mo, dopo questo post interminabile, più per la mia memoria personale, mi attende un altro capitolo davvero berlinese, a modo suo. Alle due, direzione estremo nord, meta: tempio sikh. Ebbene sì, nel turbinio di eventi, mi sono dimenticata un dettaglio: la spesa settimanale. Il frigo piange, e un amico indiano assolutamente ateo mi ha invitato al tempio. Ogni domenica c’è un banchetto per chiunque passi di lì, cibo gratis per tutti. “cibo” e “gratis” è un binomio di irresistibile attrazione. Del resto, dovrei andarci con: un’artista femminista pakistana, una ceca appena giunta in città, uno scrittore mancato brasiliano e l’indiano più autostoppista del mondo.
Direi che non c’è miglior modo per coronare un weekend davvero peculiare. Buona Berlino, birra, burro, brezel, bisessualità, bio-cibo, biottame, biancor di gote, bancarelle di natale, bici, brunch, Bären,….un bo’ di tutto, insomma.
E buona domenica a voi, se qualcuno è arrivato fino alla fine. E tranquilli, io rimango pervicacemente me stessa, fattore K di banale mediocrità e tradizionalismo, pur gaudente in questo Misch-Masch di umanità. E' un po' come infilarsi in una gonna variopinta con stivali a righe e calze a pois, mettendo però sempre la maglietta della salute come mamma vuole.
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